Luciano Violante non ha dubbi: «occorre andare avanti con decisione nel processo di costruzione comunitaria, malgrado gli euroscettici: capiranno». Ne è convinto l’ex presidente della Camera, perché non ha senso misurare le attuali debolezze dell’Europa per dire che l’Europa non serve. È vero, l’Europa «non ha ancora un numero di telefono». Siamo nel mezzo di un lungo processo di costruzione istituzionale ancora da compiere e facciamo i conti con un’eredità storica non facile. Ma «nessuno stato europeo può essere oggi un serio soggetto concorrenziale con i colossi asiatici o con gli Usa». Violante interviene sui principali temi della politica europea a pochi giorni dal voto, e rilancia il ruolo strategico di una presenza europea nel Mediterraneo.
Presidente Violante, il voto europeo sarà tra pochi giorni ma l’Europa rimane la grande assente della campagna elettorale. Che senso ha per lei oggi votare per l’Europa e perché?
La gran parte delle regole che disciplinano l’economia dei paesi membri dell’Unione europea vengono dalle istituzioni europee. Basterebbe riflettere sul peso che ha l’Ue nella regolamentazione delle materie economico finanziarie e dello sviluppo, per rendersi conto dell’importanza di votare. Per quanto mi riguarda, quanto più forti saranno le opzioni di centrosinistra all’interno del Parlamento europeo, più forte sarà una politica solidale.
Le istituzioni europee rimangono estranee alla vita dei cittadini dell’Unione, che oscillano tra un sentimento di indifferenza e uno di ostilità, più raramente di interesse e di partecipazione. Secondo lei è una situazione destinata ad essere superata?
Chi si occupa di storia delle istituzioni può confermare che tutte le grandi istituzioni sono nate per un’azione di leadership, più che per un’azione di popolo. Poi, nella storia del loro sviluppo, si è andati alla ricerca di un rapporto di connessione tra istituzioni e popolo. E il popolo è diventato la fonte di legittimazione delle istituzioni. Il processo di costruzione dell’Ue e ancora aperto e noi ci troviamo in una fase precoce, da “età del ferro” rispetto all’Europa compiuta.
Cosa deve imparare l’Europa dalla crisi che ha investito prima la finanza poi l’economia reale e che non ha risparmiato, in varia misura, gli stati che la compongono? È un fatto che l’Europa si è mostrata sempre più divisa, dalla politica dei diritti umani a quella strategica ed economica.
Il problema è che siamo ancora un insieme di stati che parlano, se non sbaglio, 27 lingue. L’Europa, per dirla con una battuta, non ha ancora un solo numero di telefono. Siamo in una fase di costruzione, ma in Europa ci siamo fatti la guerra per un millennio e non si può fare come se la storia non fosse esistita. Sbagliano, credo, coloro che misurano la attuale debolezza dell’Europa come soggetto unitario e da questo traggono spunto per dire che l’Europa non c’è o non serve. È proprio l’inesistenza di politiche unitarie su molti punti importanti a dirci che dobbiamo fare passi avanti nell’unificazione. Rispetto agli euroscettici io guardo il rovescio del ragionamento: nessuno stato europeo può essere oggi un serio soggetto concorrenziale con i colossi asiatici o con gli Usa. Proprio per questo occorre andare avanti con decisione nel processo di costruzione comunitaria.
Quali sono le sfide della sinistra europea? Un limite, per gli schieramenti politici europei, è dato dal fatto che essi non sono partiti ma gruppi-contenitori di partiti.
Più che una sfida per la sinistra europea in senso partitico, vedo la sfida per la costruzione di un’Europa unita e per una legittimazione popolare dell’Europa unita. Credo che sia questa una sfida importante per la sinistra, ma anche per la destra. Senza questa iniziativa politica le istituzioni e i singoli paesi europei conteranno sempre meno. Il vero punto di distinzione qual è? Che all’interno della destra ci sono ancora posizioni “statolatriche”, più a favore degli stati nazionali che dell’Unione. All’interno della sinistra ci sono invece posizioni che premono con maggior coraggio.
Mentre l’unità economica sembra realizzata e si procede verso l’integrazione politica, l’unità culturale dell’Europa rimane motivo di scontro. Perché?
Non mi pare: se lei va negli Stati Uniti, scopre che ci sono un costume e una cultura europea diversi da quelli americani. Lo stesso se va in Asia, in India o Cina. L’Europa ha un patrimonio culturale, di vita e di costume suo proprio.
Mi riferivo al problema, sempre discusso, del riconoscimento delle radici giudaico-cristiane dell’Europa e di un loro riconoscimento pubblico. Qual è la sua opinione su questo?
Penso che sia un tema più ideologico che reale. Quando ci fu il dibattito sulla Costituzione italiana, La Pira propose di mettere un’invocazione a Dio in apertura della Carta. Ma prevalse la tesi di Togliatti che disse a La Pira: non ci costringa, per favore, a votare su Dio. Vale lo stesso discorso, a mio avviso, per le radici culturali. Esse non sono dati giuridici ma metagiuridici. Naturalmente il tema delle radici giudaico-cristiane è sentito ed è importante, ma limitiamoci ad esso come portato storico culturale, senza farne un fatto giuridico. Ne diminuiremmo il peso.
L’allargamento mette in questione l’idea stessa di Europa. Molte sono le critiche: di averlo subordinato all’ingresso nella Nato e quindi alla politica americana; di averlo fato in ordine sparso, oppure di averlo concepito come sola opportunità per i banchieri. Che ne pensa?
Era nei destini dell’Europa allargarsi, perché la vera Europa è quella che vediamo adesso. Ma l’allargamento ad est ha distolto risorse ed energie dall’area del Mediterraneo. E questo ha significato un ulteriore isolamento dell’Europa da un’area strategica nella quale sono sempre più presenti Stati Uniti e Cina. Una maggiore attenzione ad investire nel versante mediterraneo, rallentando temporaneamente l’estensione dell’Europa ad est, sarebbe stato forse più opportuno.
Cosa pensa dell’ingresso della Turchia?
Sono favorevole, anche se capisco bene tutte le difficoltà determinate dall’ingresso di 80 milioni di persone con una forte tradizione islamica. Sarebbe un paese dello stesso peso numerico della Germania, con molti problemi non risolti, ma che ha mio avviso ha fatto degli sforzi notevoli per adeguare gli standard europei alla propria legislazione. Non abbandonerei in quella direzione un asse così importante per gli equilibri e la sicurezza europea.