L’atteso discorso del presidente Usa all’Università Al Azhar del Cairo sui rapporti tra Stati Uniti e mondo islamico non ha tradito le aspettative. L’islam, ha detto Obama, è parte integrante dell’America. «America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell’uomo». E poi i problemi dell’agenda politica: chiudere la vicenda irachena, affrontare la questione israelo-palestinese e il nodo della proliferazione nucleare. Ecco perché, secondo Vittorio Emanuele Parsi, editorialista de La Stampa, le premesse per un cambiamento ci sono tutte.



Obama ha detto che America e Islam non si escludono e hanno principi comuni. Questo però lo diceva anche l’Amministrazione precedente. Dove sta allora la differenza?

Sta intanto in chi lo dice e non è poco. Obama ha giocato la carta della propria storia personale, e lo ha fatto per aumentare la propria credibilità. E poi c’è la presa di posizione sull’Iraq: Obama è sempre stato pubblicamente contrario e questo ha il suo peso. Ha usato molta diplomazia perché non ha criticato apertamente la scelta dell’Amministrazione precedente, ma nel dire: cerchiamo una via d’intesa, la guerra in Iraq è stata una scelta, in qualche modo ha alluso al fatto di una scelta che non tutti hanno condiviso. Ha anche detto però che gli iracheni stanno meglio senza Saddam.



E per quanto riguarda Israele?

Ha detto che l’alleanza con Israele è “unbreakable”, cioè non si può mettere in discussione, ma ha anche detto che gli Usa si riservano il diritto di criticare Israele se Israele attuerà singole politiche che possono essere un oggettivo ostacolo sul percorso di pace.

 

Il discorso di Obama arriva dopo il no esplicito di Netanyahu a «due stati sovrani e indipendenti» chiesti dal presidente Usa. E dopo che gli insediamenti israeliani sono stati definiti «controproducenti», un ostacolo alla pace.

Il punto è proprio questo. Israele sa di poter contare sull’amicizia degli Stati Uniti e sa che gli Stati Uniti saranno al suo fianco qualora la sua esistenza fosse minacciata, però ora sanno che gli Usa non potranno accondiscendere a qualunque singola scelta politica israeliana. Ed è questo che è cambiato rispetto a Bush. Negli anni ’70  e ’80 quando Israele era circondato da una totale ostilità nel mondo arabo, gli americani non facevano critiche aperte perché ritenevano che in un ambiente così ostile questo comportamento avrebbe messo ulteriormente a rischio l’esistenza stessa dello stato ebraico.



E Israele non è più minacciata come allora.

Obama infatti parte da questo. La fine della guerra fredda, la guerra del 1990-91, l’11 settembre hanno mutato lo scenario. E questa amministrazione Usa non vuole sentirsi vincolata ad un giudizio politico unilaterale, perché Israele in questo momento si trova in un contesto non più così ostile ma più vario, esistono voci che sono più disponibili a dialogare con Israele. Obama ritiene che certe scelte politiche del governo israeliano possano mettere in difficoltà queste voci e alimentare l’estremismo.

Cosa potrebbe cambiare?

Israele potrebbe ritrovarsi più sola, perché gli americani non l’assisteranno più qualsiasi cosa faccia. Ma sono convinto che questa scelta degli Stati Uniti aiuterà il processo di pace, beneficiando anche ad Israele.

Le pare che il discorso di Obama possa davvero dare nuove basi al dialogo con i paesi musulmani?

Come ha detto lui stesso, non sarà un discorso a cambiare la storia. Nel frattempo però ha messo i paletti, con molta chiarezza, sui punti che dividono gli Stati Uniti dal mondo islamico e arabo in particolare e su quali sono gli elementi comuni. Il senso è stato: esistono valori e convincimenti profondi che ci accomunano ed esistono differenze su posizioni politiche. Cerchiamo di capire dove i nostri valori comuni possono essere la base per avvicinare il nostro giudizio politico.

Il Medio oriente ha però un’altra grave incognita: l’Iran.

L’Iran è in difficoltà perché nel mondo arabo non ha grandi amici. Il problema vero è che non esiste nessuno strumento realmente dissuasivo verso chi vuole andare avanti nella proliferazione nucleare. L’opzione militare esiste ma è molto difficile da percorrere, non perché sia impossibile, ma perché i vantaggi sarebbero pochi e di breve periodo a fronte di svantaggi cospicui e irreversibili. Lo stesso Netanyahu ha detto che non c’è alcuna intenzione da parte israeliana di lanciare un’operazione militare contro l’Iran. In realtà solo l’Iran può decidere se andare avanti o fermarsi. Ma come spingerli a fermarsi è molto difficile.

L’Europa va al voto domani. Quali sono gli spazi per una politica europea nell’area?

L’Ue fa parte ancora del Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue, ndr.) e se si rimette mano ad una road map, un ruolo effettivamente ci può essere. Ci sono truppe Ue schierate a difesa dei confini tra Libano e Israele, le truppe europee sono parte dell’Aisaf in Afghanistan e quindi non siamo mai stati così tanto impegnati. Più che una politica dell’Unione – che sarebbe comunque auspicabile -, basterebbe che la politica dei sei principali paesi europei fosse minimamente coordinata. Saremmo nella condizione di appoggiare fattivamente qualunque progresso verso la pace. L’“isolazionismo” non ha mai portato a nulla di buono.