Chi ha perso di più? Questa fin da subito è sembrata la domanda decisiva nei commenti intorno all’appuntamento elettorale del 6 e 7 giugno. In sensi opposti, le aspettative eccessive sulle sorti dei partiti maggiori hanno creato uno strano avvitamento nei giudizi, per lo più distanti dai dati reali. Ma secondo Stefano Folli, notista politico de Il Sole 24 Ore, rimane indubitabile la realtà dei fatti emersa dalle urne: nonostante gli scossoni la maggioranza tiene, pur cambiando aspetto, mentre il centrosinistra manifesta sempre più evidente la sua crisi, che mai come in questo momento è anche e soprattutto crisi di giudizio.



Folli, è vero che il risultato sommato di Pdl e Lega, cioè della maggioranza di governo, rimane sostanzialmente invariato rispetto all’anno scorso; però è altrettanto vero che il Pdl non sfonda. Che riflessione fare?

Questo è certamente vero: soprattutto da parte del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi era stata creata un’aspettativa eccessiva, che con tutta evidenza non è andata a buon fine. Questo ha di conseguenza portato all’enfatizzazione, soprattutto nei commenti, di un arretramento del Pdl che c’è stato ma che, nei fatti, non è poi così rilevante. Quando si crea un’aspettativa del genere – addirittura si era parlato di numeri altamente improbabili, come il 45% dei consensi – ne consegue naturalmente un contraccolpo.



Confermato invece il grande successo, previsto, della Lega Nord: che conseguenze porta con sé questo risultato?

Il successo della Lega è politicamente un fatto molto importante, che in un certo senso andrà a cambiare i rapporti di forza all’interno della coalizione. Non intendo dire che nasceranno dei conflitti, ma semplicemente che la Lega avrà l’opportunità di porre con più forza la propria agenda politica. Un dato significativo, da tenere in considerazione per gli sviluppi futuri. Quindi dai dati emerge a mio avviso il fatto che la maggioranza sostanzialmente si conferma, ma in un certo senso cambia natura.



In che modo cambia?

Sicuramente da una parte accentua l’aspetto nordista. In secondo luogo dovrà però porsi in modo rilevante il problema di trovare una sintesi nazionale nel proprio progetto politico. D’altronde la compenetrazione di questi due elementi è da sempre la fortuna di questa maggioranza, ed è un progetto che ora ha bisogno di consolidarsi.

È in questa prospettiva che già ieri, nei primi commenti di autorevoli esponenti del Pdl, si rilanciava l’ipotesi di riallacciare con l’Udc, soprattutto in vista delle regionali del prossimo anno?

Questo è sicuramente un aspetto importante, che avrà sviluppi. Ma il punto essenziale, e caratterizzante questo voto in prospettiva nazionale, è la necessità di recuperare la situazione in Sicilia, fattore decisivo per quanto riguarda l’arretramento del Pdl alle europee. Berlusconi dovrà dimostrare la capacità di recuperare in modo convincente questa situazione. E lo può fare: non credo che Bossi porrà ostacoli da questo punto di vista.

Oltre al voto siciliano, sull’arretramento del Pdl ha pesato anche un certo voto cattolico, magari segnato dalle recenti vicende privare del premier?

Secondo me sì. C’è un certo tipo di elettorato cattolico che ha vissuto con disagio le vicende personali del premier, e i comportamenti privati di cui tanto si è parlato. Sono polemiche che hanno creato un po’ di disaffezione, che si è manifestata per lo più con l’astensione, e non con lo spostamento del voto.

A sinistra, invece, come deve essere vissuto questo risultato elettorale?

A sinistra siamo all’anno zero. Il leader del Pd Franceschini ha commentato il voto dicendo che il governo non è più maggioranza nel Paese; per usare un eufemismo, direi che ha formulato un giudizio improprio. Nel Paese c’è una maggioranza, e dall’altra parte non c’è nessuna alternativa, nessuna proposta convincente, ma un arcipelago frastagliato di idee. Il Pd, da questo voto, esce sconfitto, checché se ne dica. Teniamo poi conto che la maggior parte dei commenti riguarda le elezioni europee; ma altrettanto importanti sono le amministrative, dove non mancano esempi significativi – come ad esempio il caso di Piacenza – che dovrebbero far riflettere profondamente il Pd.

Quindi quali segni lascia nel centrosinistra questo voto?

Primo, un giudizio: il Pd non ha tenuto, ma ha subito una perdita seria. E soprattutto deve fare i conti con un Di Pietro che adesso numericamente vale un terzo del Pd, mentre prima valeva un sesto. Un dato che peserà moltissimo e che condizionerà molto il dibattito nel centrosinistra. Non mi sembra per nulla convincente, soprattutto nella prospettiva del congresso di ottobre, far passare quella del 6 e 7 giugno come una mezza vittoria.