Ringrazio Luca Pesenti dell’attenzione dedicata alla mia intervista; e a mia volta prendo buona nota delle sue osservazioni critiche. Non comprendo, però, nel suo intervento, la differenza tra “pari opportunità” e “libertà di scelta”: per me le due espressioni, nel contesto in cui le usiamo entrambi, hanno sostanzialmente lo stesso significato. 



Mi sembra, dunque, che concordiamo sulla necessità di costruire per le donne questa condizione di “pari opportunità”, o, che è lo stesso, di “pari libertà di scelta” se entrare o no nel mercato del lavoro regolare. A questo punto chiedo a Pesenti: è vero o no che, nel nostro sistema attuale, per una numerosa serie di circostanze, le donne incontrano di fatto maggiori ostacoli di quanti ne incontrino gli uomini, cioè siano meno libere?



Se la sua risposta è “no, non è vero”, le nostre strade divergono. Ma se la risposta è “sì”, se cioè siamo d’accordo sul punto che oggi esistono degli ostacoli da superare perché le donne possano esercitare appieno la libertà di scelta tra il dedicarsi esclusivamente alla famiglia e il dedicarsi anche al lavoro professionale, allora dobbiamo discutere quali siano i modi migliori per eliminare quegli ostacoli. 

La divergenza tra Pesenti e me – se ben comprendo – è su di un altro punto: sulla questione, cioè, se debba essere perseguito o no come obiettivo di progresso economico-sociale un aumento del tasso di occupazione regolare femminile nel nostro mercato del lavoro. A me sembra che questo obiettivo debba essere perseguito, insieme a quello di una più facile conciliazione tra lavoro professionale e lavoro domestico di cura, perché questo aumenta complessivamente la sicurezza e il benessere delle famiglie. Questa non è per me una certezza metafisica; ma mi convincono gli argomenti che vengono portati a sostegno di questa tesi da molti studiosi (ultimamente esposti da Maurizio Ferrera nel suo libro “Il fattore D”, Mondadori, 2008). Che cosa pensa Pesenti di quegli argomenti?



Capisco che, se non si condivide l’opzione – fatta propria dall’Unione Europea – di un aumento del nostro tasso di occupazione regolare femminile, non si può concordare neppure sull’opportunità di un incentivo economico al lavoro professionale femminile. Questo è il vero punto di dissenso tra noi.

Cordialmente, Pietro Ichino

Il prof. Ichino si conferma uomo di dialogo e, con la consueta misura e intelligenza, nella sua cortese risposta va al cuore del problema. Vi è in effetti una divergenza di partenza tra i nostri approcci. La differenza non è ovviamente sul diritto al lavoro per le donne (che non è in discussione), quanto sul problema della conciliazione tra famiglia e lavoro. A me pare che il paradigma dominante a livello di Unione Europea – che possiamo sintetizzare dentro il concetto di “pari opportunità” – sottovaluti, fino a farla scomparire, la famiglia come problema centrale delle politiche ed elemento irriducibile alla somma dei suoi individui. Da qui discende la mia diffidenza per politiche di conciliazione pensate principalmente – e forse univocamente – con lo scopo di aumentare il tasso di occupazione delle donne. Questo impianto generale si presenta spesso come un dogma indiscutibile, con la forza di una prescrizione a metà strada tra il normativo e il morale. 

A questo dogma, che a mio avviso limita gravemente la libera scelta delle famiglie, ritengo sia necessario opporre un approccio sussidiario, sostenuto da autorevoli personalità accademiche (penso tra gli altri agli autori del volume “Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie”, nono Rapporto del CISF – Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia, curato da Pier Paolo Donati). Secondo questo indirizzo teorico il primo obiettivo delle politiche sociali in generale e di conciliazione in specifico deve essere quello del benessere delle famiglie. La libera scelta (delle famiglie, non semplicemente delle donne) e l’utilizzo del quoziente famigliare rappresentano due strumenti (ma non gli unici) su cui cominciare a costruire un nuovo paradigma, che appare certamente alternativo a quello comunemente accettato a livello Ue. 

Nei termini del nostro dibattito, costringendomi a semplificare con uno slogan, è l’occupazione a dover essere pensata in funzione della famiglia e non viceversa. Questo non significa assolutamente che il lavoro femminile debba essere in qualche modo svalutato o addirittura limitato. Significa semplicemente far pesare parallelamente (e vorrei dire innanzitutto) le esigenze famigliari nel loro insieme. 

Mi piacerebbe che su questo tema si aprisse una discussione pubblica ampia, esattamente come per parte nostro stiamo facendo su ilsussidiario.net. E mi piacerebbe che si cominciasse a pensare ai costi sociali che il modello orientato al 70% di occupazione femminile (così recita l’ottimistica strategia di Lisbona) sta già cominciando a generare, non solo per gli adulti ma anche e soprattutto per i figli, consegnati ad un circuito non sempre virtuoso in cui soprattutto nella fase più delicata per una crescita armonica del bambino (0-3 anni) gli attori principali diventano nonni, asili e baby sitter. 

Sarebbe interessante poter disporre di indicatori di benessere della famiglia, da aggiungere a quelli sul tasso di occupazione femminile. Forse così scopriremmo una fatica montante soprattutto tra le famiglie più giovani, e inizieremmo a mettere in discussione un modello di welfare ancora troppo guidato dal mercato e dalle sue presunte inesorabili esigenze.

 

Luca Pesenti