Finalmente il Governo ha superato il “complesso del 1994”, quando la riforma delle pensioni mise in moto una conflittualità sociale molto aspra, presa a pretesto per la caduta del primo esecutivo presieduto da Silvio Berlusconi. Da allora, la linea di condotta dei governi di centrodestra è sempre stata ispirata alla cautela, salvo poi assumersi le responsabilità necessarie, come avvenne con la legge Maroni del 2004.
Ieri, dopo molte esitazioni (in parte giustificate dalla situazione di crisi che il Paese attraversa) il Governo ha trovato il coraggio di “fare” anche in una materia delicata come la previdenza. Un assist decisivo è venuto dall’Unione europea (la vera garante delle nostre virtù repubblicane, altrimenti scarse), dopo che, il 13 novembre scorso, l’Alta Corte di Giustizia aveva condannato l’Italia per discriminazione di genere perché, nella pubblica amministrazione, le donne possono andare in pensione a 60 anni, 5 anni prima dei loro colleghi maschi. I contenuti di quel provvedimento presentano alcuni profili discutibili; la sentenza però doveva essere applicata per non incorrere nelle sanzioni previste in caso di inadempimento.
L’emendamento del Governo al decreto anticrisi (dl n.78 attualmente all’esame della Camera dove arriverà in Aula lunedì prossimo) prevede il passaggio a 61 anni, a partire dal 1° gennaio 2010, dell’età di vecchiaia delle dipendenti della pubblica amministrazione. In seguito, il requisito aumenterà – in ragione di un anno ogni due – fino a raggiungere i 65 anni nel 2018. Mantengono il previgente regime soltanto le lavoratrici che abbiano maturato, entro il 31 dicembre 2009, i requisiti di età e di anzianità già previsti.
Le risorse risparmiate (120 milioni nel 2010 e 242 milioni negli anni successivi) confluiranno in un “fondo strategico” presso la Presidenza del Consiglio per interventi dedicati alle politiche sociali e familiari con particolare attenzione ai problemi della non autosufficienza. Il Governo ha poi voluto introdurre anche una norma di carattere generale: a decorrere dal 2015 i requisiti anagrafici per l’accesso al “sistema pensionistico italiano” saranno adeguati all’incremento dell’attesa di vita – accertato dall’Inps e convalidato da Eurostat – con riferimento al quinquennio precedente.
In sostanza, i requisiti evolveranno in modo automatico in armonia con le dinamiche dell’aspettativa di vita verificata nel quinquennio precedente. In fase di prima attuazione il prolungamento non potrà superare i tre mesi. Si tratta dunque di un processo soft, ma continuativo, ragguagliato a criteri oggettivi e destinato a combinarsi con gli effetti di incentivazione/disincentivazione prodotto dai coefficienti di trasformazione e dalla loro periodica revisione.
Che altro aggiungere? Quando un Governo “tocca” il tema delle pensioni incassa immediatamente un grande credito sul piano europeo e internazionale. Con i “chiari di luna” di un deficit al 5% del Pil, Tremonti non ha esitato a mandare quel segnale che gli osservatori e i mercati attendevano. Chi scrive, insieme ad altri colleghi, aveva presentato degli emendamenti in proposito, sia al ddl comunitaria 2009, sia al decreto anticrisi. In verità, venivano suggerite misure più eque e protettive delle lavoratrici pensionande, in quanto conservavano i precedenti requisiti anche le donne in regime di prosecuzione volontaria e quelle che erano comunque cessate dal servizio senza aver maturato il diritto a pensione. Il Governo non ha voluto accogliere queste ulteriori salvaguardie. Come pure, nell’emendamento a mia firma (insieme a Benedetto Della Vedova, Lella Golfo, Beatrice Lorenzin) le risorse risparmiate erano destinate a politiche di miglioramento del lavoro e del welfare delle donne, attraverso la costituzione di un apposito fondo.