Tempo di ferie, tempo di compiti per le vacanze anche per i nostri politici. Come gli scolari, meglio che anche loro si buttino avanti. Ecco le pagelle e qualche suggerimento estivo.
Silvio Berlusconi: buono. Il G8 gli ha restituito un po’ dello smalto perduto nelle polemiche degli ultimi mesi in cui il capo del governo è rimasto impantanato. Finita la tregua richiesta dal presidente Napolitano, è ripreso il tam-tam gossipparo di Repubblica che rende bene in termini di copie e mette a dura prova le coronarie del premier. Berlusconi non ha che una strada: rimettersi a lavorare rompendo la paralisi degli ultimi mesi e magari cavando dal cilindro qualche idea più nuova dello scudo fiscale. Lasciarsi immobilizzare dagli scoop sulla sua vita privata e rallentare l’azione di governo è più pericoloso del rischio di essere ricattabile da qualche ragazzotta a caccia di copertine.
Giorgio Napolitano e Gianfranco Fini: sufficiente. La prima e la terza carica dello stato vanno ormai a braccetto: non c’è uscita dell’uno che non venga spalleggiata a ruota dalle dichiarazioni dell’altro. L’ultimo esempio è il Quirinale che firma la legge sulla sicurezza accompagnandola con una serie di osservazioni negative, insolita prassi istituzionale. Entrambi vogliono segnare una “vicinanza critica” a Palazzo Chigi, gli tengono la briglia corta: scelta comprensibile per Napolitano, uomo di sinistra trasformatosi in garante, ma incongrua per l’ex leader missino che vorrebbe diventare il delfino del premier. Compito: rivedere le strategie. Appuntamento a settembre.
Bondi, Verdini, La Russa: discreto. Il trio che guida il Pdl deve lavorare molto sull’affiatamento e sulla corsa per consolidare un partito che ancora si regge unicamente sulle gambe di Berlusconi. L’esito delle europee e delle amministrative è confortante come numero di poltrone conquistate, meno come consenso reale nel Paese. Più coraggio nel valorizzare quelli che ci credono davvero e nel ridimensionare i professionisti della politica.
Umberto Bossi: buono. Il Senatùr continua a collezionare successi. La strategia vincente è porsi pochi obiettivi e battersi alla morte. Come Mao, ha lanciato una lunga marcia verso il federalismo e passo dopo passo sta raccogliendo i frutti. I luogotenenti locali crescono (a parte Salvini) garantendo un futuro al nuovo Ppi: partito del pragmatismo italiano.
Dario Franceschini: insufficiente. Il segretario del Pd avanza a colpi di capriole. Perde le elezioni e dice che ha vinto, prende la segreteria “a tempo” e si ricandida, chiama all’unità il partito e poi vara una fase pre-congressuale lacerante. Il credito con cui aveva sostituito Veltroni è dilapidato, il “nuovo” che proclama ha la faccia di Fassino e Marini. Ignazio Marino e Grillo rischiano di erodergli ancora consensi. Se a ottobre non vince il congresso, sparisce come colui che l’ha preceduto.
Pierluigi Bersani: discreto. Rotti gli indugi, uno degli uomini migliori del Pd è sceso finalmente in campo in prima persona avendo alle spalle l’ingombrante ombra di D’Alema. Da Franceschini lo divide l’idea stessa di partito democratico, riformista e organizzato. Un ritorno al passato, una ricetta che funziona come dimostra la Lega che comincia a vincere nelle regioni rosse proprio perché fa quello che faceva il vecchio Pci: presenza sul territorio, ascolto dei cittadini, obiettivi precisi. In aggiunta, Bersani è più aperto di Franceschini verso quegli esponenti del centrodestra più aperti al dialogo. Per il congresso sarà lotta dura.
Antonio Di Pietro: insufficiente. Sembra uno di quegli allenatori di calcio che la buttano sempre in rissa: magari vincono una partita, magari stanno in testa al campionato qualche giornata, di certo conquistano ogni giorno le prime pagine dei giornali, tuttavia a fine torneo “zero tituli”. L’urlatore di Montenero si sgola invano. Ma forse a lui interessa acchiappare l’incasso delle partite, e tanti saluti.
Bertinotti, Pecoraro, Boselli: ritirati. L’estrema sinistra è come un incrociatore a battaglia navale: colpito e affondato.