A Milano per partecipare al convegno “Beyond the Welfare State, towards Subsidiarity”, organizzato dalla Johns Hopkins University e dalla Fondazione per la Sussidiarietà, l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema, prendendo un attimo di pausa dalle tante discussioni e polemiche di questi giorni sul futuro del Pd, affronta i punti essenziali per impostare un rilancio del sistema di welfare nel nostro Paese.
Presidente D’Alema, tra le grandi sfide del futuro c’è l’esigenza di una riforma strutturale del welfare, nel nostro Paese ancora troppo legato a un’impostazione centralistica, che non regge più, anche dal punto di vista economico. Qual è il modello di welfare che una sinistra riformista immagina?
Innanzitutto un modello efficiente. Se misuriamo l’efficienza del welfare nel nostro Paese dai risultati, dobbiamo purtroppo concludere che siamo uno dei Paesi europei in cui è più alto il tasso di disuguaglianza sociale, in cui è maggiore la povertà minorile, in cui è minore la mobilità sociale. Quindi i risultati del nostro modello di welfare sono sicuramente deludenti. Non c’è dubbio allora che noi dobbiamo riformare questo modello. Il centrosinistra, in particolare, dovrebbe a mio avviso ispirarsi ai principi che furono elaborati dalla commissione Onofri, istituita nel 1997 dal primo governo Prodi, in particolare l’idea di universalismo selettivo, in grado effettivamente di concentrare le risorse verso gli strati sociali che devono essere sostenuti e di cui bisogna accompagnare la promozione e far crescere le opportunità.
Quale via scegliere allora, tra welfare state e welfare society?
Io sono convinto che la via giusta sia quella mediana, cioè di un modello di welfare che esclude gli eccessi di uno statalismo paternalistico e burocratico, e dall’altra parte che non affida la promozione sociale al mercato, ma che ribadisce una responsabilità pubblica, nel quadro di una governance condivisa con le organizzazioni del terzo settore e della società civile. Questo è il modello più efficace, oltre ad essere quello più corrispondente alla realtà del nostro Paese.
Parlare di welfare in un momento di crisi come quello attuale porta subito a pensare alle misure a sostegno di chi sta pagando, soprattutto con la perdita del lavoro, gli effetti di questa situazione. Cosa pensa dell’azione del governo, in particolare riguardo agli ammortizzatori sociali in deroga?
Io credo che l’accordo sugli ammortizzatori sociali in deroga, che in gran parte è dovuto alle regioni italiane che hanno fornito una parte fondamentale delle risorse, sia stata una misura importante; purtroppo l’unica misura che il governo ha messo in campo contro la crisi economica. In quanto tale è dunque una misura insufficiente. Detto questo, rappresenta però uno scudo di protezione importante, che per la prima volta si è esteso non soltanto ai lavoratori delle imprese medie e grandi, e quindi ha allargato il campo delle protezioni.
Perché dice che questa azione è insufficiente? Cosa manca?
Ritengo che la crisi non richieda solo misure di sostegno degli strati più colpiti, ma metta in causa un modello ampio di sviluppo e richieda misure di carattere più strutturale. Perché non c’è dubbio che una delle ragioni della crisi sta proprio nelle grandi disuguaglianze sociali e di redistribuzione del reddito che si sono sviluppate in questi anni. La redistribuzione del reddito ha avuto caratteri di disuguaglianze impressionante nei paesi più ricchi; e l’Italia è purtroppo all’avanguardia di questi squilibri. E quando il reddito è distribuito in modo così diseguale, si genera una strozzatura anche per i consumi. È infatti evidente che il grande manager che guadagna 15 milioni di euro non li spende dal droghiere o dal panettiere; invece una ricchezza più diffusa favorisce un rilancio generalizzato dei consumi. Allora noi siamo un paese nel quale il livello dei salari – come ci viene ricordato non da qualche centro sovversivo, ma dal governatore della Banca d’Italia – è il più basso tra i paesi avanzati. Io penso che in realtà la crisi richiederebbe non misure tampone, ma nuove politiche di ampio respiro, di cui non c’è ahimé traccia nell’azione del governo.
Il sistema del welfare comprende anche il capitolo istruzione: in questo campo non le pare che il centrosinistra rimanga troppo attaccato a certe posizioni conservatrici, espresse sopratutto dai sindacati?
Le principali riforme in questo campo le abbiamo fatte noi. Alcune riforme, come quella dell’università, richiedono di essere valutate nei loro effetti, ma non mi pare proprio che noi siamo stati inclini al mantenimento dello status quo. Vorrei ricordare che anche la legge sulla parità scolastica l’abbiamo fatta noi, con il ministro Berlinguer.
Però poi l’avete un po’ lasciato solo, in pasto proprio ai sindacati…
Io ne trarrei una conclusione diversa: quando Berlinguer si è battuto per introdurre un criterio di merito nella distribuzione anche dei compensi, ha dovuto affrontare uno scontro con il sindacato. Questa è proprio la dimostrazione che noi abbiamo fatto anche scontri con i sindacati, e che non ci siamo sempre accomodati sulle loro posizioni. Abbiamo compiuto uno sforzo di riforma, che non vedo nel centrodestra: vedo soltanto un taglio delle risorse destinate alla scuola, pubblica o privata, i cui effetti complessivi sono negativi sulla qualità del sistema.
Progetti di riforma nel centrodestra ci sono, (sull’autonomia e sull’introduzione di criteri di merito per i docenti): li appoggerete?
Io sono in generale favorevole al fatto che ci sia un confronto sulle riforme; finalmente sarebbe utile che questo paese sviluppasse un confronto serio in questo senso. Quella delle riforme è la sfida vera della politica in questo momento. Però, onestamente, se considero gli ultimi quindici anni di storia nazionale, grandi riforme fatte dal centrodestra non le ricordo.