In Parlamento si torna a discutere di testamento biologico.
La XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati sta, infatti, esaminando la proposta di legge sulle «disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento», alla luce del principio contenuto nella mozione approvata lo scorso febbraio al Senato, secondo cui l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere negate da chi assiste soggetti non in grado di provvedere a se stessi. Principio di assoluta civiltà.
Gli onorevoli commissari, nell’affrontare il delicatissimo tema, dovrebbero sempre tener presente il motivo per cui la politica è stata costretta ad occuparsi di vita e di morte: il dramma di Eluana Englaro e l’interpretazione creativa di certa magistratura.
A tal fine sarebbe davvero consigliabile la lettura del decreto 9 luglio 2008 emesso dalla Corte di Appello di Milano, in cui è stato disposto l’«accudimento accompagnatorio» di Eluana Englaro verso la morte. Se si deve parlare di vita e di morte, di diritto alla vita e di diritto alla morte non è onesto rimanere nel campo delle astrazioni filosofiche e delle fumisterie intellettuali.
Bisogna invece fare i conti con la cruda realtà. Ed è solo partendo dalla realtà che i problemi si possono affrontare in una prospettiva serena e immune dalle tossine velenose del preconcetto ideologico. Diversamente, non resta che la resa all’ideologia, ovvero a quelle che don Luigi Giussani lucidamente definiva «la costruzione teorico-pratica sviluppata su un preconcetto e basata su un aspetto della realtà, anche vero, ma preso in qualche modo unilateralmente e tendenzialmente assolutizzato per una filosofia o un progetto politico».
Torno, allora, al consiglio iniziale: guardare la realtà, per quanto dura essa possa apparire. E per fare questo si può iniziare dalla lettura dell’agghiacciante passaggio (punto 5) del citato decreto della Corte d’Appello di Milano, in cui vengono dettagliatamente descritte le «disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa», ovvero le modalità concrete con cui è stata interrotta la vita di Eluana Englaro. Merita di essere integralmente riportato nella sua involuta prosa proustiana (un solo periodo di 229 parole da lasciare letteralmente senza fiato):
«Resta solo da precisare, sebbene possa apparire ultroneo alla luce degli stessi accorgimenti suggeriti dal tutore istante quanto alle modalità con cui attuare l’interruzione del trattamento di sostegno vitale, ma accogliendosi un esplicito richiamo della Suprema Corte a impartire qualche ulteriore disposizione pratica e cautelativa, che, in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad assistere Eluana, occorrerà fare in modo che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso-gastrico, la sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o antinfiammatori, ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di ricovero confacente, ed eventualmente – se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla miglior pratica della scienza medica – con perdurante somministrazione di quei soli presidi già attualmente utilizzati atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad es. anche con l’umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento, ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento, e in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l’assistenza, almeno, dei suoi più stretti familiari».
La macabra descrizione della procedura imposta dai giudici milanesi fa percorrere un brivido nella schiena quando la si accosta al famigerato protocollo di Groningen stabilito per l’attuazione dell’eutanasia infantile in Olanda. Identica l’atroce modalità di esecuzione attraverso la «sospensione dei sostentamenti vitali».
Alla radice di simili follie – mutatis mudandis – si intravede sempre la pericolosissima tentazione della hitleriana “Gnadentod” (morte per grazia). Con l’aggravante di una crudele ipocrisia. Eluana è deceduta «per arresto cardio-circolatorio dopo una crisi di natura elettrolitica conseguente a disidratazione». Più brutalmente, è morta di sete.
Per i medici del Terzo Reich, paradossalmente, il senso della “Gnaden”, della pietà per la «lebensunwertes Leben» (vita non più degna di essere vissuta) era forse più profondo: inutile una lenta agonia fino alla morte per stenti. Molto più umana e pietosa una rapida iniezione di quel cocktail letale fatto di scopolamina, morfina e barbiturici previsto dal protocollo della Aktion T4, il programma di eugenetica elaborato presso l’Ente Pubblico per la Salute e l’Assistenza Sociale del Reich.
Fu il Führer in persona che il 1 settembre 1939 diede avvio a quel mostruoso programma, mediante il proprio ordine che testualmente disponeva: «Il Reichsleiter Bouhler e il dottor Brandt sono incaricati, sotto la propria responsabilità, di estendere le competenze di alcuni medici da loro nominati, autorizzandoli a concedere la morte per grazia (Gnadentod) ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio, previa valutazione critica del loro stato di malattia». Tale provvedimento acquisiva effetti giuridici attraverso la nota in calce per “presa visione” del Ministro della Giustizia del Reich Franz Gürtner, giurista noto per il suo puntiglioso legalismo borghese. Spesso le aberrazioni possiedono i crismi della formalità e della legge.
Per questo dovremmo riflettere sull’inaudita gravità di ciò che è accaduto con il caso Englaro, in cui il sigillo del potere giudiziario ha conferito il formale avvallo dello Stato repubblicano alla morte di un innocente incapace di difendersi e di far valere le proprie ragioni, sulla base del principio per cui «una vita è degna solo se vissuta con pienezza di facoltà motorie e psichiche» (traduzione dei giudici milanesi del termine nazista lebensunwertes Leben).
Quando un giorno verrà letto quel passo del decreto sul caso Englaro in cui si stabilisce di «accompagnare alla morte» un soggetto incapace di intendere e di volere «in un hospice o altro luogo di ricovero confacente» i posteri si chiederanno: Germania nazionalsocialista anni ’30? No, Repubblica italiana 2008.
È per scongiurare simili aberrazioni ed il rischio di una deriva eutanasia per via giudiziaria, che il Parlamento italiano sta cercando di approvare la proposta di legge in discussione, ridando così dignità alla nostra civiltà giuridica.