In Iran le manifestazioni spontanee si moltiplicano, ma il regime va avanti nella repressione. Ieri l’agenzia Fars, vicina al governo di Teherean, ha diffuso una nota secondo cui sono almeno 20 le vittime degli scontri che si sono susseguiti dopo le elezioni del 12 giugno. Le dure prese di posizione delle diplomazie occidentali, Usa ed Europa in testa, non vanno al di là delle semplici, per quanto perentorie, dichiarazioni di ammonimento. Lo scenario rimane quanto mai incerto. Se la posizione degli Usa è però ormai chiara, non si può dire altrettanto di quella della Cina, che ha interessi diretti nell’area e che perciò segue molto da vicino lo sviluppo della situazione.



Sisci, cosa pensa il governo di Pechino di quanto sta accadendo in Iran?

Il primo interesse della Cina è che sia salvaguardata la stabilità: tutto va bene purché non ci sia una guerra civile. Quindi a Pechino un Ahmadinejad che avesse vinto le elezioni sarebbe andato benissimo. Invece un presidente legittimato da un voto truccato risulta debole e per questo non è da preferire ad una situazione più stabile, per esempio quella di un Moussavi vincitore e legittimato da Khamenei. Non è un problema di leader, ma di stabilità. E Pechino ragiona con estremo realismo politico.



Fino a condividere una dittatura se serve a mantenere la stabilità?

La Cina non ha alcun interesse a che si conservino le dittature, che sono strutturalmente instabili, ma a che i regimi che si aprano man mano verso l’esterno, che siano possibilisti. Sicuramente non vuole rivoluzioni che cambino le cose secondo modalità che risultano imprevedibili. È l’imprevedibilità che fa tremare la Cina.

Pechino è preoccupata dall’instabilità di un Ahmadinejad nuovamente al potere, ma senza più l’autorevolezza di una vittoria legale?

È decisamente lo scenario peggiore: un Ahmadinejad instabile, fragile e senza autorevolezza. Se però, poniamo il caso, questo Ahmadinejad così debole avesse bisogno di sostegno internazionale e per averlo dovesse aprire al dialogo con l’America, la Cina vedrebbe la situazione con favore.



Questa valutazione del governo cinese contiene implicitamente un giudizio negativo sulla politica di Ahmadinejad fino ad ora?

La Cina non è contenta del radicalismo di Ahmadinejad, della sua retorica bellicosa verso Israele e del programma nucleare iraniano, perché sono tutti fattori destabilizzanti. Se però il prezzo della rivolta fosse la completa destabilizzazione dell’Iran, Pechino sarebbe preoccupata, perché potrebbe crearsi un pericoloso effetto domino. A quel punto l’Afghanistan diventerebbe ancor più difficile da gestire, lo stesso sarebbe per il Pakistan, e anche l’Iraq non potrebbe non subire contraccolpi.

In che modo la Cina potrebbe subire i contraccolpi di un aggravarsi della crisi?

Una destabilizzazione dell’Iran vorrebbe dire un aumento del prezzo del petrolio. Attualmente la Cina è il maggior acquirente di gas iraniano e il maggior costruttore straniero di opere civili. Sarebbero tutti investimenti a rischio. Senza contare il fattore religioso: una ripresa del radicalismo islamico vorrebbe dire un rilancio dell’iniziativa dei radicali islamici cinesi che agiscono nel Xinjiang.

Dunque ripercussioni dirette dentro i confini cinesi. Di che si tratta?

Lo Xinjiang è una regione autonoma popolata da una minoranza etnica turcofona di fede islamica, gli uiguri. Sono sunniti ma hanno subito un forte influsso del fondamentalismo waabita. Contano circa otto milioni di persone e occupano un quarto del territorio cinese. Molti vorrebbero l’indipendenza, è attivo un gruppo legato ai talebani dell’Afghanistan e sussistono anche legami con Al Quaida. Se la situazione in Iran precipitasse, il disordine potrebbe alimentare in modo preoccupante l’instabilità della regione.

Qual è la posizione di Pechino sul nucleare iraniano, anche tenendo conto degli ultimi sviluppi?

La Cina è contraria alla proliferazione. Ma c’è un punto che complica lo scenario: se l’Iran riuscisse ad ottenere il nucleare ci sarebbero ancor meno motivi per la Nord Corea di non averlo a sua volta. O, detto in altri termini: se la comunità internazionale dovesse “condonare” il programma nucleare iraniano, come potrebbe la Cina avere motivi per ostacolare il programma nucleare nordcoreano? In ogni caso, la visita recente a Pechino del nuovo leader “designato” di Pyongyang, Kim Jong-un, è un segnale. Pechino potrebbe aver detto: noi accettiamo il nuovo leader, però voi in cambio fate un passo indietro sul programma nucleare. Non è chiaro però che cosa intenda fare Pyongyang…

Insomma la Cina osserva attentamente l’evolversi della situazione. La stessa cosa fa Obama, o no?

Direi così: Pechino non può permettersi che nel tentativo di portare a termine una rivoluzione lo status quo a Teheran ne risulti completamente destabilizzato. La posizione cinese è un “vorrei ma non posso” e in questo è simile a quella di Obama, che vorrebbe un cambiamento però ha le mani legate. E sa benissimo che spesso queste “rivoluzioni colorate” portano più problemi di quanti ne risolvano: L’impressione è comunque che stavolta l’America sia più prudente perché non è chiaro quali siano le prospettive politiche.

Moussavi darebbe più garanzie di stabilità rispetto ad Ahmadinejad?

C’è un fatto: se domani Moussavi dovesse andare al potere grazie a una rivoluzione, la sua legittimità sarebbe molto più forte di quella attuale di Ahmadinejad e quindi se volesse accelerare il programma nucleare sarebbe molto più difficile condizionarlo. Un Ahmadinejad più debole potrebbe essere più disposto a fare concessioni.