L’improbabile nascita di un partito del sud è una manifestazione di rivendicazionismo assistenzialista, non è il Sud che si propone come un’opportunità per la stessa unità del paese. Il Pd? Si prepara ad una scissione. Il Pdl? Il suo futuro è sfaldarsi. Lo stato? Dovrebbe occuparsi di noi il meno possibile. Piero Ostellino, editorialista del Corriere, interviene sulle questioni aperte del paese.
Ostellino, le polemiche legate al partito del sud hanno riaperto il tema dell’unità italiana. O si tratta di qualcosa d’altro?
Sullo sfondo c’è la solita questione storico-politica che si esprime nel risorgimento tradito e nell’unità mancata. E l’unità è mancata perché non abbiamo costruito uno stato che assomigli ai grandi stati dell’Europa continentale, Francia, Inghilterra e Germania. Il resto lo ha fatto lo scontro tra comunisti, che guardavano all’Urss come modello, e anticomunisti, che guardavano alle democrazie occidentali. Il risultato è che viviamo in un perenne stato di guerra civile.
Quali sono le responsabilità della politica? C’è chi dice che manca una classe dirigente.
I due grandi partiti di massa italiani, la Dc e il Pci, hanno avuto il merito storico di tenere a bada quello che è esploso dopo la frammentazione del quadro politico, cioè il movimentismo. Il danno che Mani pulite ha prodotto scardinando l’assetto politico rappresentato dai partiti che avevano partecipato alla Costituente, è immenso. Al posto di una riforma politica è stata fatta una rivoluzione giudiziaria. Questa ha creato un nuovo stato di cose che non si sostanzia più nella cultura politica che il paese, bene o male, fino a quel momento era riuscito ad esprimere, bensì in un movimentismo che vorrebbe dichiararsi democratico, ma che in realtà è una manifestazione antistato.
A chi si riferisce?
Esistono movimenti – e penso a Di Pietro – con la convinzione che semplicemente invocando la censura preventiva a qualsiasi atto politico si realizzi la democrazia. Col risultato di delegittimare il presidente della Repubblica, di dimostrare di non conoscere la Costituzione, e di mettere a soqquadro l’ordinamento giuridico uscito dalla Carta del ’48.
Del movimentismo di cui parla fa parte anche il virtuale partito del sud?
L’improbabile nascita di un partito del sud è una manifestazione di rivendicazionismo assistenzialista, non è il Sud che si propone come un’opportunità per la stessa unità del paese. La Lega al nord invocava, sia pure in chiave retorica, la secessione contro Roma ladrona, il sud invoca ora l’assistenzialismo da parte della stessa Roma ladrona. È il frutto della cattiva abitudine a vivere alle dipendenze della carità pubblica.
Tutto il sud è uguale?
No, tutt’altro. Ci sarebbero buoni imprenditori meridionali – uno di questi, per esempio, è l’editore Rubbettino – che chiedono allo stato di non dare più sussidi al Sud, perché così facendo si finisce per impedire la nascita di una buona imprenditoria. Questo è un vero “pensiero liberale” che viene dagli imprenditori del Sud ma che non trova risposta.
Andiamo a vedere lo scenario politico. Il Pd ha gli anticorpi per sopravvivere alla propria disgregazione?
Non credo. Penso invece che il Pd si prepari, faticosamente e inesorabilmente, ad una scissione. Lo dimostra il fatto che la componente ex comunista dentro il Pd sta mettendo dentro le proprie fondazioni il proprio patrimonio immobiliare. Questo fatto una spiegazione ce l’ha: se si va verso la scissione, hanno messo al sicuro il patrimonio, quello che poi servirà a sostenere il nuovo partito.
E il Pdl? Qual è il suo “nemico interno”?
Non credo che abbia un nemico interno; ha però un baco interno, questo sì. È un partito personale, nato intorno alla persona di Silvio Berlusconi. Il giorno in cui Berlusconi smette di fare politica il centrodestra rimane senza rappresentanza e si sfalda. È probabile che a quel punto riemergano le vecchie divisioni, la destra da una parte, la Lega dall’altra, altri che si ricongiungono con l’Udc. Che poi questi ultimi tornino a formare una sorta di neo-democrazia cristiana è un altro discorso. Ma resta il fatto che avremo un quadro politico ancor più frammentato, sia a sinistra che a destra.
Nel suo Lo Stato canaglia emerge che c’è un’Italia che va avanti, produce e ha successo nonostante un’altra Italia che le si contrappone. Quale, e perché?
L’Italia che produce, che va avanti e che ci tiene dentro il mercato internazionale è quello che lo Stato canaglia ha “abbandonato” – fortunatamente, aggiungo io – al mercato. E che di conseguenza si è fatta gli anticorpi per andare avanti da sola. Non può purtroppo investire grandi capitali, è vero, perché si tratta di media e piccola industria. Abbandonando a se stessa quest’Italia, lo Stato canaglia le ha consentito di operare come si fa in un mercato liberale.
Cosa fa o dovrebbe fare un vero stato liberale?
Occuparsi di noi il meno possibile, se non per darci la cornice giuridica entro la quale dobbiamo operare, evitando così che ciascuno di noi si mangi l’altro, diventando il suo “lupus”. Lo stato deve dare una cornice normativa dentro la quale ciascuno persegue il proprio ideale di felicità, a condizione di non impedire agli altri di fare altrettanto, danneggiandoli.
Un profilo che non corrisponde esattamente all’Italia di oggi.
Quello nel quale viviamo è uno stato segnato dal connubio tra banche, industria e sussidi di stato. Uno stato che tiene in piedi molte imprese, difendendo di fatto il diritto di assegnare certe tariffe, non soltanto a livello nazionale ma anche a livello locale, dopo che le cosiddette privatizzazioni hanno messo in mano ai partiti, e alle clientele dei partiti, i servizi e il patrimonio. Questo è lo stato canaglia nel quale viviamo.
Sta arretrando o sta avanzando?
Secondo me sta avanzando, per una ragione molto semplice: conviene alla classe politica, quale ne sia il colore. Sia a destra che a sinistra la ricerca del consenso a costi elevati per la collettività è più forte della ricerca del bene comune.
In un’intervista al Giorno lei ha parlato di “bancarotta culturale” che affligge il nostro paese. Non è un’espressione troppo forte?
Mi sembra la più adeguata a rendere un paese storicamente segnato da quella che si potrebbe chiamare egemonia comunista. La stessa che per tutto il secondo dopoguerra ha scoraggiato la pubblicazione dei classici del pensiero liberale, e che ha impedito che nelle università si insegnasse come si vive in una società aperta. Quest’egemonia ha fatto danni irreparabili: nella scuola, nella magistratura, nella classe politica, nel pensare comune. Ci ha persuaso che esiste una contraddizione insanabile tra le libertà individuali e l’interesse collettivo. E invece no: sono le libertà individuali che fanno l’interesse collettivo. Questo non può prescindere dal vero, autentico interesse della persona.
Ci sono stati tentativi virtuosi di superare questa situazione?
Certamente. Penso per esempio alla funzione pluralistica e sociale che ha avuto Cl. Da liberale non condivido quanto vi è in essa di “integralismo” cattolico, però non posso non riconoscere che nelle nostre università Cl ha difeso il diritto di avere delle idee diverse, come espressione di una preferenza individuale. Svecchiando una componente culturale cattolica ancora tarata dal non expedit di Pio IX, quindi dalla non partecipazione pregiudiziale alla politica dello stato unitario, dall’ostilità nei confronti del capitalismo e del profitto.
E in questo, lei dice, la “non liberale” Cl avrebbe svolto un’importante funzione civile?
Esatto. Collocandosi agli antipodi del tentativo totalitaristico e organicistico del Pci, animato dall’idea di fondere la società civile con la politica, che in uno stato liberale devono essere rigorosamente tenute distinte.
In Italia, oggi, la “questione morale” ha assunto le forme del dibattito sulle conseguenze pubbliche della virtù privata. In altri termini: Berlusconi non è più legittimato a governare?
Questa “questione morale” avrebbe un minimo di discutibilissimo fondamento teorico se fosse una cosa seria. Ma credo piuttosto ad messinscena tipicamente nostrana che sbandiera principi etici per giustificare interessi privati non sempre puliti. In tutta questa vicenda c’è però un aspetto paradossale: la distruttiva propensione all’autogratificazione del capo del governo.
Il dibattito sulle vicende private del premier ha mostrato che un cattolicesimo a vocazione moralistica nel nostro paese è ancora molto forte. Che ne pensa?
Che in nome dei propri valori un cattolico faccia di quel che è accaduto una questione morale, è nell’ordine delle cose. Quello che invece preoccupa è che questa valutazione morale si trasformi in politica, cioè che il peccato sia assimilato al reato. L’assimilazione del peccato al reato o del reato al peccato è pericolosa se diviene criterio di delegittimazione politica. In uno stato laico, dove si dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, le due cose dovrebbero, a mio avviso, essere tenute separate.