Dopo che il Governo ha presentato il decreto anticrisi, resta sempre aperto il capitolo riguardante le riforme del sistema previdenziale. L’Ue ha già chiesto da tempo all’Italia di parificare l’età pensionabile di uomini e donne nel settore pubblico, ma questo non è stato ancora fatto, anche per l’opposizione dei sindacati. Altri settori della società chiedono invece l’introduzione del quoziente famigliare per riformare il sistema fiscale. Dell’opportunità di queste e di altre riforme abbiamo parlato con Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd.



 

Professor Ichino, la Corte di Giustizia europea è tornata a sollecitare l’equiparazione dell’età pensionabile di donne e uomini nella Pa. Conviene adeguarsi a quanto chiede l’Europa?

Certo che sì! Avremmo, anzi, dovuto provvedere già da tempo. Ormai siamo rimasti gli ultimi in Europa a non aver parificato l’età di pensionamento per uomini e donne e nei tre Paesi nei quali una differenza ancora esiste, è già in corso una parificazione graduale e si conosce già l’anno, ormai vicino, in cui la parità di trattamento verrà integralmente raggiunta.



Una riforma pensionistica con l’innalzamento dell’età sembra inevitabile. Esiste secondo lei un approccio in grado di superare la paura politica di perdere voti, che sembra comparire in entrambi gli schieramenti?

Se si fa politica con l’orizzonte temporale della legislatura, non ci si dovrebbe lasciar paralizzare da questa paura: sulla distanza dei quattro o cinque anni, anche le scelte più incisive e coraggiose vengono capite dall’opinione pubblica. Ormai, comunque, quello della parità di trattamento previdenziale è un vincolo inderogabile per noi. Occorre rispettarlo, procedendo a una parificazione graduale dell’età di pensionamento, in modo da evitare di danneggiare le lavoratrici già vicine al requisito minimo. La riforma Dini del 1995 consente di stabilire un limite flessibile di età per il pensionamento, a scelta del lavoratore o lavoratrice: chi sceglie di andare in pensione prima, riceve una pensione più bassa. Per esempio, in Svezia tutti coloro che hanno raggiunto i 40 anni di contribuzione possono scegliere quando andare in pensione, tra i 61 e i 67 anni di età; e ovviamente chi ci va più tardi ha una pensione nettamente migliore.



Una delle obiezioni all’equiparazione dell’età pensionabile è che le donne sopportano un carico aggiuntivo, rispetto agli uomini, di lavoro di cura dei bambini e degli anziani. Cosa ne pensa?

È vero. Ma dobbiamo uscire dalla logica risarcitoria: “tu donna sopporti questo carico diseguale e in cambio ti mandiamo in pensione prima”. È una logica che ci condanna a un equilibrio deteriore. Per uscirne occorre parificare gradualmente l’età del pensionamento e destinare subito, anche in via anticipata, tutto il denaro che in questo modo si risparmierà a incentivare il lavoro femminile regolare, a incrementare i servizi alla famiglia, a istituire periodi di contribuzione figurativa in corrispondenza con congedi parentali allungati.

A proposito dei congedi parentali, si dice che ne usufruiscono quasi sempre le donne, col risultato di rendere meno appetibile il loro lavoro per le imprese.

Anche questo è vero. Proprio per questo sostengo la necessità di una detassazione selettiva dei redditi di lavoro delle donne, come “azione positiva” in funzione dell’aumento del tasso di occupazione femminile, fino al raggiungimento dell’obbiettivo fissato dall’Unione Europea (rispetto al quale siamo molto indietro). Per esempio: oggi, su di un reddito di mille euro al mese si pagano 110 euro di Irpef. Ridurre questa imposta per le donne a 10 euro al mese costerebbe circa 4 miliardi all’anno, cioè circa lo stesso importo che è costato allo Stato l’abolizione totale dell’ICI sulle case dei ricchi.

E come si potrebbe “coprire” questo mancato gettito Irpef?

In parte questa perdita di gettito fiscale sarebbe recuperata con l’aumento dell’occupazione femminile: domanda e offerta di lavoro femminile sono infatti molto più elastiche rispetto al lavoro maschile, quindi risponderebbero bene a un incentivo fiscale di questo genere. Per il resto, quel costo potrebbe essere finanziato con il 4 o 5 per cento dei 70 miliardi che oggi lo Stato spende ogni anno per mantenere in equilibrio il bilancio pensionistico dell’Inps. Invece di spendere quei soldi per mandare in pensione i 59enni o 60enni, spendiamoli per far entrare nel mercato del lavoro molte più donne, per offrire più servizi alla famiglia, che oltretutto richiedono manodopera per lo più femminile. Il lavoro di cura svolto professionalmente e in forma regolare rende molto di più alla società, e alle lavoratrici stesse che lo svolgono, del lavoro domestico che oggi viene da esse svolto per lo più informalmente.

L’Ocse ha dato una valutazione positiva delle misure anticrisi del governo. In generale il provvedimento del governo, al pari di quello varato per le banche, appare puntuale e circostanziato, ma “minimale”. Condivide quest’analisi?

Sì, questa “manovra” varata dal Governo contiene alcune buone idee; ma è veramente di entità complessiva ridottissima, poco più che simbolica. Serve quasi solo a poter dire, in televisione e nei dibattiti, di aver dato una risposta a questo o a quello. Se si intervenisse con le riforme strutturali del welfare e del mercato del lavoro, guadagneremmo margini molto maggiori per interventi congiunturali più incisivi ed efficaci. Su questo punto concordo totalmente con quanto sostiene e propone il Governatore della Banca d’Italia Draghi.

Occorre però anche tener conto della fattibilità e della sostenibilità delle riforme…

Qui si vede la capacità di governare il Paese. Riconosco che il centrosinistra di Prodi non ha brillato, su questo terreno; ma il centrodestra di Berlusconi mi sembra del tutto fermo. Sembra che Tremonti e Sacconi abbiano paura anche soltanto di parlare delle riforme del welfare e del mercato del lavoro.

L’80% del cuneo fiscale è legato al finanziamento delle pensioni pubbliche. A parte l’innalzamento dell’età pensionabile, la nostra previdenza complementare è al palo. Secondo lei andrebbe incentivata e sviluppata?

Nel complesso, mi sembra che il sistema dei fondi di previdenza complementare abbia retto bene alla tempesta della crisi. Con la ripresa economica, anche la previdenza complementare avrà un forte impulso. E sarà un bene sia per i lavoratori interessati, sia per l’intera economia.

La riforma della contrattazione, puntando su merito e decentramento, le pare in grado di evitare il ricorso massiccio a contratti di collaborazione o di lavoro parasubordinato?

Francamente, non vedo un nesso tra l’una e l’altra cosa. La lotta per il riconoscimento del merito e contro il regime di apartheid ai danni del lavoro precario si combatte ridisegnando il diritto del lavoro per le nuove generazioni di lavoratori: tutti a tempo indeterminato, ma nessuno inamovibile. E per chi perde il posto, in conseguenza di un licenziamento per motivi economici, sostegno del reddito e assistenza a livelli nord-europei. È quello che propongo col disegno di legge n. 1481 presentato nel marzo scorso, ”per la transizione a un regime di flexsecurity”. 

Di recente il ministro Scajola ha auspicato la reintroduzione in finanziaria del quoziente familiare. È d’accordo?

 

No. 

Perché?

 

Perché è un meccanismo fiscale che disincentiva l’ingresso nel mercato del lavoro del secondo membro adulto della famiglia, che per lo più è la moglie. L’effetto sul tasso di occupazione femminile sarà esattamente contrario a quello che dobbiamo proporci di ottenere.

Per quanto concerne il Libro bianco sul welfare, il grande tema rimane quello della sostenibilità: da un lato, un Paese che non cresce non può permettersi spese eccessive per la tutela dei propri cittadini più deboli; dall’altro lato, i vincoli di finanza pubblica saranno probabilmente già ampiamente infranti senza avviare alcuna delle auspicabili riforme del settore, per effetto della crisi economica. Come agirebbe in questo scenario il “suo” Libro bianco?

Delle misure per l’incremento del lavoro femminile ho detto poco fa. E sarebbe già una misura molto incisiva, in funzione dell’allargamento della base produttiva e dell’incremento del prodotto lordo. Poi occorrerebbe adottare tutte le misure che possono consentire di aumentare gli investimenti stranieri in Italia. Siamo un Paese fortemente chiuso agli investimenti esteri, non solo per alcuni nostri difetti strutturali, ma anche per scelte politiche precise, come quella della difesa dell’ “italianità” delle nostre imprese. E anche a causa di alcuni gravi difetti del nostro sistema di relazioni industriali e del nostro diritto del lavoro. Basterebbe che raggiungessimo la metà della capacità della Gran Bretagna di attirare investimenti stranieri, perché la nostra economia ne abbia un enorme beneficio in termini di domanda di lavoro aggiuntiva e di innovazione positiva nel tessuto produttivo.

Infine, un accenno al Pd. Prima delle elezioni una delle possibili vie d’uscita dall’impasse caldeggiate dai fautori del rinnovamento del partito passava per il territorio: buona politica del territorio vs. vecchia forma-partito della segreteria e del notabilato. A suo avviso come produrre una vera discontinuità e come affrontare il nodo delle alleanze, cioè la più controversa, quella con Di Pietro?

Lo statuto del Pd prevede che il segretario sia anche il candidato-premier; e che sia eletto col metodo delle primarie. Questo costringe il partito a superare le logiche auto-referenziali degli apparati, del ceto politico, e ad aprirsi alla società civile, a capirne le esigenze reali. È una autoriforma della politica molto difficile; ma è la via giusta per uscire dall’impasse in cui oggi il Pd si trova. Lo stesso metodo deve applicarsi se ci si allea con uno o più altri partiti minori, i quali pertanto devono condividere quel metodo. Il senso principale del congresso che si celebrerà a ottobre sta nella conferma dell’impegno del partito a praticare questo metodo, oppure nel ritorno al metodo tradizionale che ha caratterizzato la nostra “prima Repubblica” e in qualche misura anche la seconda, fino allo scorso anno.