L’apertura del governo, o meglio di Berlusconi in risposta alla Lega, alle cosiddette gabbie salariali, è tutta politica, come si sostiene da molti ovvero ha un fondamento di merito? Gli indizi che si tratti soprattutto di una mossa politica non mancano. Non è il primo tema provocatorio sollevato dalla Lega in questi ultimi tempi cui la maggioranza è costretta a rispondere, anche dividendosi al suo interno: dalla richiesta di legittimare le bandiere regionali, a quella di esami di dialetto e di lingua locale, alle forzature sul decreto sicurezza e sul reato di clandestinità.



Si tratta di qualcosa di più che di semplici esagerazioni “agostane”. Qualcuno sostiene che tali provocazioni tradiscono il nervosismo della Lega che vede avvicinarsi l’impegno del federalismo fiscale, pieno di incognite per tutti, anche per il Nord, come si vede dai silenzi del Ministro Tremonti, e che deve fronteggiare le richieste del partito del Sud; o forse sono il segno di tensioni più profonde fra le varie componenti del centro destra, non solo quelle meridionali, che il premier fatica a comporre con generiche promesse. Certo l’incombere della crisi economica richiede ben altro che promesse e prospetta per l’autunno un orizzonte fosco, che pesa su tutti, a cominciare dalle piccole imprese e dai ceti produttivi del Nord, a cui la Lega dovrebbe prima o poi dare risposte concrete.



In realtà la gravità della situazione economica, che non accenna ad attenuarsi, postula risposte concordi da parte di tutti, maggioranza e opposizione, forze politiche e forze sociali. Provocazioni come quella delle gabbie salariali non sono certo fatte per aiutare la concordia; né per risolvere i problemi più urgenti del paese. Le questioni urgenti sono quelle della caduta verticale della produzione e dell’occupazione, della crisi delle imprese, dello spettro della disoccupazione, non certo le gabbie salariali.

Ma veniamo al merito della questione “gabbie”. Un primo elemento di fatto, rilevato da molti, è che differenze di prezzi e differenze di retribuzioni esistono da tempo nel nostro paese. I dati recenti della Banca d’Italia hanno solo confermato informazioni note, secondo cui il costo della vita è mediamente superiore del 16% al Nord rispetto al Sud. E si è risposto con altri dati, pure noti, che mostrano come anche i salari del Sud siano mediamente inferiori a quelli del Nord. Le stime delle retribuzioni sono variabili per i metodi di calcolo, ma anche per le diversità obiettive delle condizioni economiche e quindi salariali delle diverse regioni, non solo fra Nord e Sud ma all’interno dello stesso Sud. Le indicazioni più attendibili che mi risultano mostrano differenziali medi del 13-14 %, quindi non molto diversi dalle variazioni del costo della vita. E non risulta che il divario fra Nord e Sud su questo punto sia cresciuto negli ultimi tempi.



Una specificazione rilevante è che queste valutazioni medie non rappresentano adeguatamente né la varietà delle situazioni economiche e della qualità del lavoro, a cui si devono rapportare i salari , né le diverse realtà del costo della vita. Le diversità di costo sono marcate, in particolare, fra grandi città e piccoli centri; si pensi solo al livello degli affitti e dei trasporti. Dati pubblicati nei quotidiani di questi giorni mostrano non solo la diversità dei prezzi città per città, ma anche la loro diversa dinamica nel tempo: anzi nell’ultimo anno i prezzi sono cresciuti di più in alcune città del Sud, da Napoli a Reggio Calabria, che in molte città del Nord (in alcune di queste l’andamento è anzi negativo).

Bastano questi cenni per capire che predeterminare in misura rigida, e dal centro, i differenziali salariali, sia oltre che ingiusto, anche controproducente. Tanto più se lo volesse fare in via legislativa. Si irrigidirebbe un sistema che tutti ritengono debba avere più flessibilità. E una rigidità tirerebbe l’altra. Se si fissano centralmente i differenziali salariali perché non fissare nello stesso modo anche altri determinanti del sistema a cominciare dal costo del credito, che è più alto al Sud, o degli affitti? La contraddizione è evidente non solo col federalismo evocato dalla Lega, ma con un qualunque sistema di mercato.

Allora la questione va affrontata con un’altra prospettiva; certo in via contrattuale, ma anche qui evitando soluzioni centralistiche e invece utilizzando la contrattazione decentrata. L’utilità della contrattazione decentrata per adeguare le retribuzioni alle diverse situazioni aziendali e locali è stata affermata da decenni, sancita dall’accordo interconfederale del 1993 e ribadita in quello del gennaio 2009. Si tratta di farla funzionare meglio, con più attenzione ai vari caratteri delle diversità esistenti nel nostro paese. Se si vuole veramente perequare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini italiani nei loro territori, in una logica di giustizia e di efficienza, e non invece discriminarli, occorre tener conto di tutti gli elementi rilevanti: il costo della vita, nelle sue diverse componenti, ma anche la produttività delle imprese, la occupazione e la sua qualità.

Questo si può fare efficacemente solo con una buona contrattazione decentrata: buona in quanto rifletta appunto tutti questi elementi. A tal fine è essenziale la contrattazione aziendale, che può misurare produttività e qualità del lavoro. Ma per servire a questo fine la contrattazione aziendale dovrebbe essere accessibile alla generalità delle aziende: oggi ne copre non più del 25%, e nel Sud meno che nel Nord. Occorrerebbe promuoverla anche nelle aziende più piccole; oppure utilizzare per queste una contrattazione territoriale, come si fa in alcuni settori (agricoltura, edilizia, artigianato).

Nel caso dell’artigianato si sono ipotizzati tavoli di confronto territoriali per adattare le condizioni contrattuali alle varie situazioni locali, compreso il legame fra andamenti retributivi e costo della vita. Confronti territoriali simili potrebbero sperimentarsi anche in altri settori; e potrebbero utilizzare istituti già presenti nella contrattazione recente, come il cosiddetto “elemento perequativo”, per modulare parte della retribuzione alle diverse caratteristiche del territorio ( costo della vita , ma anche condizioni economiche e occupazionali). Una attenzione particolare merita in questa ottica il costo delle abitazioni, affitti in specie, che varia notevolmente, soprattutto in relazione alla dimensione delle città. Lo si può fare nell’ambito dei confronti territoriali di cui sopra oppure con intese territoriali specifiche sull’argomento che coinvolgano anche le amministrazioni locali interessate.

Questa strada richiede un’attenzione particolare nel settore pubblico, su cui si appuntano in particolare le critiche, non solo della Lega. Il fatto è che le retribuzioni dei pubblici dipendenti sono ancora poco differenziate non solo o non tanto per territorio, ma in rapporto al merito e alla qualità del lavoro. La contrattazione decentrata opera in alcuni settori, ma non in tutti, e non sempre bene: in particolare le retribuzioni degli insegnanti sono fissate quasi sono centralmente, con l’effetto di provocare appiattimenti ingiusti e demotivanti.

Si tratta anche qui di utilizzare fino in fondo le potenzialità del decentramento contrattuale; e di farlo in modo virtuoso, cioè finalizzandolo a valorizzare e a tenere in conto le diverse condizioni di lavoro, di vita e di merito delle persone. Per ottenere tale risultato, ed evitare distorsioni, è decisivo responsabilizzare le amministrazioni pubbliche. A questo deve servire il federalismo fiscale: appunto a responsabilizzare le amministrazione nell’uso delle risorse, a cominciare dal personale, prevedendo incentivi per i comportamenti virtuosi, compreso il libero utilizzo delle risorse risparmiate, e disincentivi, cioè responsabilità anche fiscale per chi spreca le risorse pubbliche.