Dal 30 luglio, in Italia, è consentito l’uso del mifepristone, l’ormone sintetico meglio conosciuto come Ru486. Si tratta di una pillola abortiva che inibisce lo sviluppo embrionale, causandone il distacco e l’eliminazione dalla mucosa uterina. In pratica, il feto viene ucciso e poi espulso dalla donna. Questo – per ora – è previsto che avvenga all’interno di un ambulatorio, con la supervisione di un medico. Nulla impedisce che, in futuro, la pratica possa essere espletata nella solitudine della propria abitazione, come già avviene nella maggioranza dei Paesi in cui il farmaco è in uso. Della sua introduzione è responsabile l’Aifa, l’Agenzia per il Farmaco italiana. La quale, sostituendosi al Parlamento (che, dal canto suo, è incerto anche se aprire o meno un dibattito) ha stabilito la liceità del suo utilizzo. L’evento ha fatto sì che in molti inneggiassero all’abbattimento delle ultime frontiere che impediscono alle donne l’emancipazione completa. Se le cose stiano veramente così, lo abbiamo chiesto a Josephine Quintavalle, la più nota esponente del movimento pro-life britannico, fondatrice e direttore, dal ‘94, del Core (Comment on Reproductive Ethics), l’osservatorio sulle tecniche riproduttive umane.
Il professor Veronesi, un luminare della medicina italiana, afferma che l’approvazione della Ru486 sia parte di un progetto non scritto di affermazione del futuro ruolo della donna. È d’accordo?
Non credo proprio. Il ruolo e la libertà della donna sono fondati sulla possibilità di vivere la propria natura, la propria essenza al cento per cento. Sono femminista e se una donna deve abortire per potersi sentire uguale agli uomini, questa è tutt’altro che una liberazione. Del resto tutte le femministe americane e inglesi erano contrarie all’aborto. Perché difendevano i più deboli e gli emarginati. Che si trattasse di donne, neri, o del bambino che una porta in pancia, non faceva differenza. È incredibile che un uomo possa pensare che ci emancipiamo distruggendo quello che nasce in noi. L’uguaglianza consiste nel celebrare le differenze. Quello che afferma Veronesi è la castrazione della donna, la distruzione della sua essenza.
Cos’è successo in Inghilterra, quando la pillola è stata introdotta?
Gli aborti sono aumentati, passando negli ultimi dieci anni da 50 mila a 200mila all’anno. E la popolazione non è certo quadruplicata. Dieci anni fa solo l’8 per cento di questi erano procurati con la pillola. Oggi sono il 38 per cento. È invalso nelle ultime generazioni di medici un sentimento nuovo, una sorta di disgusto nei confronti delle pratiche abortistiche. Molti giovani dottori si rifiutano di ammazzare un feto, perché – affermano – hanno studiato per curare, non per uccidere. La pillola, paradossalmente, rappresenta una risposta da parte degli abortisti per facilitare il processo.
È sicura e indolore come dicono?
Chi dice questo dovrebbe parlare con donne che hanno avuto esperienze del genere. La pillola ha una percentuale di fallimenti alta. Non sempre avvengono gli aborti. L’aborto chirurgico è più sicuro. La Ru486, inoltre, è dolorosissima. Ho parlato con molte donne che l’hanno usata: hanno sofferto, eccome, per giorni. Ma al di là dei dolori fisici, di ogni sorta, quelli più terribili sono di natura psicologica. La donna vede il feto espulso. Anzi, deve vederlo, altrimenti non sa se l’aborto sia avvenuto o meno.
Uno dei punti della legge 194, che in Italia disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza, prevede il ricovero ospedaliero. La Ru486, di per sé, non lo rende necessario. Questo cosa comporta?
Comporta che si farà da sé. All’inizio anche da noi vigeva il sistema del ricovero obbligatorio. Poi si iniziò a pensare che, tutto sommato, la donna poteva assumere il farmaco anche a casa. Del resto mantenere una persona in ospedale diversi giorni è costosissimo. Hanno cambiato ragionamento, lo stesso accadrà in Italia. Si inizia con protocolli precisi e rigorosi e poi diranno che, in fondo, negli altri Paesi, il ricovero non è previsto e che si tratterà semplicemente di adeguarsi. Per la donna, poi, comporterà l’esperienza della disperazione.
Probabilmente, in effetti, il suo utilizzo rappresenta una rivoluzione culturale per la donna. Sì, ma di che tipo?
Voglio ricordare che si tratta semplicemente di un altro modo di abortire, anche se più cruento. È una distrazione. L’unica cosa che accadrà, sarà che gli aborti aumenteranno, come in Inghilterra.
Nel nostro Paese, come nel suo, la legge consente di abortire, in particolarissime occasioni. Ma non parla mai di diritto all’aborto. Cosa cambia con la Ru486?
L’aborto rimane un atto criminale del quale si fanno rare eccezioni. Questa è la legge scritta, altra cosa l’applicazione. Bisogna essere veramente ingenui per credere che gli aborti in Europa avvengano secondo le leggi dei Paesi. Una donna pochi giorni fa mi ha raccontato di aver fatto domanda, telefonicamente, ad una clinica, per un aborto. Due giorni dopo ha ricevuto l’autorizzazione. È entrata in ambulatorio alla due del pomeriggio ed è uscita alle tre e un quarto. Neanche dal dentista si fa così velocemente. E credo che in tanti abbiano conoscenti con esperienze simili. Se questo è il vero senso della legge allora va rivisitata.
Il nostro presidente della Camera ha detto che la questione non deve essere affrontata dal Parlamento. Da chi allora?
Sul piano della morale è difficile attribuire al parlamento un compito del genere, quello di stabilire ciò che è bene o ciò che è male. Ma che tutto ciò venga orchestrato da un’agenzia che ha il solo scopo di giudicare la velenosità o meno di un farmaco, questo è inaccettabile. Del resto qui si tratta di legiferare su una pillola che potrebbe nuocere seriamente alla salute della donna e del quale non se ne conoscono ancora gli effetti. Credo che sia ovvio, quindi, che il vostro Parlamento debba intervenire.