Nell’attuale contesto di crisi economica internazionale, chi rischia di pagare il conto più alto sono i paesi in via di sviluppo o un interno continente come l’Africa. Proprio a quel continente così vicino a noi è dedicato un incontro di oggi del Meeting di Rimini dal titolo “Africa: i conflitti dimenticati” cui partecipa il ministro degli Esteri Franco Frattini. A ilsussidiario.net Frattini spiega le strategie che il nostro paese e la comunità internazionale hanno da offrire per questa parte del mondo.



Ministro Frattini, l’Africa è da cinquant’anni al centro dell’agenda internazionale per i temi della fame e dell’aiuto allo sviluppo. Molto resta ancora da fare. Che cos’ha l’Italia da offrire a quel continente e che cosa l’Africa ha da offrire all’Italia?

L’Italia ha messo al centro del G8 dell’Aquila l’Africa non come problema, ma per le potenzialità che è in grado di esprimere. Si tratta di un Continente cui guardare non soltanto come fornitore di risorse naturali ma come portatore di un capitale umano enorme e come attore chiave per le sfide globali. Dobbiamo mettere da parte l’afro-pessimismo e l’afro-determinismo. L’Italia ha da offrire molto, ma mi limiterei qui a citare il nostro modello di piccole e medie imprese che potrebbe innescare lo sviluppo in molte realtà locali, la tecnologia per opere infrastrutturali, assistenza umanitaria per la lotta alle malattie endemiche. Nel Nord Africa l’Italia è già ora il primo partner commerciale europeo, il Continente africano se alimentato da uno sviluppo sostenibile è destinato a divenire un mercato rilevante per le nostre merci. Ma la sfida è anche quella dell’immigrazione, dobbiamo aiutare lo sviluppo altrimenti le ondate di clandestini verso l’Europa diverranno inarrestabili e insostenibili sul piano umano e della sicurezza.



Affrontare il tema dello sviluppo nell’anno della crisi mondiale è difficile, perché presuppone disponibilità finanziarie che gli stati oggi non hanno. D’altra parte le organizzazioni internazionali sono state fortemente criticate per i loro interventi, che oggi si dimostrano costosi e inadeguati. A quali paradigmi e formule di intervento è necessario guardare oggi?

Non possiamo permetterci di far pagare la crisi economica mondiale agli africani. A causa della crisi mondiale le previsioni di crescita per il 2009 in Africa si sono considerevolmente ridotte. Bisogna ripartire con un nuovo patto per l’Africa tra Paesi africani da un lato e Paesi industrializzati ed economie emergenti dall’altro. Ci si deve muovere lungo due direttrici: aiuti intelligenti e auto-responsabilizzazione africana. Il paternalismo del passato non puo’ funzionare, l’azione va diretta a favore della crescita strutturale e lo sviluppo sostenibile e bisogna essere piu’ “creativi” nel mobilitare attori e risorse pubbliche e private per favorirne le sinergie.



Uno dei maggiori problemi oggi è dato dalla grande quantità di terreni agricoli sfruttati da attori esteri, in particolare Cina e corporations, e che in tal modo vengono sottratti allo sviluppo dei paesi. Cosa si può fare?

Bisogna stabilire un codice di condotta sul piano internazionale, che coinvolga paesi industrializzati ed economie emergenti, per far sì che investimenti esteri pubblici e privati si svolgano in quadro coerente, di reciproco interesse, che favorisca lo sviluppo economico e umano del continente africano. Bisogna poi rafforzare la capacità dei paesi africani di sfruttare da sè i terreni agricoli, fornendo loro la tecnologia necessaria per migliorare la produttività e modernizzare i sistemi di coltivazione.

Un certo tipo di Islam e la presenza cinese non facilitano la transizione di molti paesi africani verso forme caute e sperimentali di democrazia. Quali chances ci sono?

Si tratta di un tema molto delicato. L’Islam africano endogeno è quasi sempre un Islam moderato alla ricerca del dialogo e con il quale si può collaborare. I fenomeni estremisti quali quelli cui assistiamo per esempio in Somalia sono generalmente fomentati dall’esterno. Sono gli stessi Paesi africani che spesso ci chiedono assistenza nel combattere l’estremismo e sono pronti a collaborare, in tal senso, con la comunità internazionale.

La Cina è stato negli ultimi anni un importante agente di sviluppo economico per il continente africano. L’azione cinese si é accompagnata a opere infrastrutturali importanti, a investimenti rilevanti. E lo sviluppo economico é anche la chiave per una democrazia sostenibile. Non ci si puo’ quindi fermare a criticare i cinesi, anche se ovviamente non si possono in nessun caso sottacere e tanto meno avallare né in Africa, né altrove, violazioni dei diritti umani essenziali. La democrazia non la si puo’ del resto imporre. Piuttosto va incoraggiata con il consenso delle società e dei governi locali. È però un dato di fatto: laddove rinasce la democrazia (Mozambico, Uganda, Angola) subito si producono risultati importanti anche a livello economico e di standard di vita. Vi é quindi una relazione reciprocamente virtuosa tra sviluppo economico e democrazia.

Se l’Africa cresce ai ritmi attuali, è stato calcolato che diventerà presto il più grande polo demografico mondiale con persone in età di lavoro in rapporto all’assenza di un mercato interno. Esiste un piano di intervento per affrontarne i flussi migratori?

È un tema assai delicato e che bisognerebbe affrontare con un’ottica più strategica appunto per le ragioni espresse nella sua domanda. L’Unione europea può e deve dotarsi di una strategia per affrontare in maniera olistica il rapporto demografia-sviluppo-immigrazione. Ma occorre un salto di qualità nella strategia anche da parte degli altri attori e fori internazionali. C’è bisogno di strategia internazionale, ma c’è anche bisogno di responsabilità da parte dei governi africani stessi.

Come l’Africa stessa può affrontare il problema?

Il Presidente Usa Obama ha detto giustamente in Ghana “il vostro destino è nelle vostre mani” . Certo, da parte occidentale e dei Paesi emergenti bisogna incoraggiare l’autoresponsabilizzazione dei leaders e delle società africane. Ma tocca poi alla leadership africana trasformare il maggior peso economico e politico acquisito dal Continente in maggiori responsabilità per la sorte dei propri cittadini. L’Unione Africana e le organizzazioni sub regionali come l’ECOWAS (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) in Africa Occidentale, l’IGAD (Autorità intergovernativa per lo Sviluppo) in Africa orientale o la SADC (Comunità per lo sviluppo dell’Africa Australe) stanno crescendo e dando un contributo importante alla crescita di una cultura africana della auto-responsabilità. Bisogna incoraggiare e insistere su queste organizzazioni. È fondamentale l’integrazione economica del continente africano per creare un grandemercato interno che possa assorbire la nuova offerta di lavoro che la crescita demografica creerà negli anni futuri.

I fondi promessi al G8 quando verranno dati? Il governo ha in mente strategie e canali di sviluppo per non comprometterne l’utilizzo?

Ciascun Paese segue le proprie procedure e i propri meccanismi. Posso però dire che il mantenimento degli impegni presi è una nostra grande preoccupazione tanto che il G8 dell’Aquila, per la prima volta nella storia di quel consesso, ha approvato meccanismi e una task-force sulla “accountability” che consenta di tenere traccia dell’effettivo mantenimento degli impegni presi in ambito G8. Il governo italiano manterrà i propri impegni. Quanto all’utilizzo di questi fondi, esso sarà deciso assieme ai nostri partner africani, secondo quello spirito di rapporto paritario di cui le parlavo poc’anzi e che ha costantemente ispirato l’azione italiana.

Esistono “paesi-target” della politica italiana, Libia a parte? In paesi come Etiopia, Eritrea e Somalia l’Italia ha rinunciato ad un suo ruolo peculiare?

L’Italia sta svolgendo un ruolo di primo piano in Somalia sia sul piano politico che su quello del sostegno economico e finanziario al Governo Federale Transitorio. Tale ruolo ci è riconosciuto a tutti i livelli a partire dalla Somalia stessa, che ha nominato Ambasciatore a Roma l’ex primo Ministro, che da parte del resto della comunità internazionale. Ricordo solamente che lo scorso 9-10 giugno si è svolta a Roma la riunione dell’ “International Contact Group” per la Somalia con la partecipazione del Primo Ministro somalo e di altri 35 Paesi interessati alla crisi. Io stesso vengo spesso consultato sulla crisi somala e del Corno d’Africa sia dagli attori regionali che dai miei colleghi dell’Unione Europea. Stiamo rivolgendo il nostro interesse anche ai Paesi che offrono le maggiori opportunità verso le nostre imprese, potenziando concretamente le nostre Ambasciate, pur in un contesto di risorse limitate, e gli altri strumenti di sostegno alla penetrazione della nostra imprenditoria. Ho visitato nei mesi scorsi numerosi paesi africani dell’area occidentale del continente (Nigeria, Angola, Sierra Leone e Senegal). Ho già programmato un nuovo viaggio nell’area orientale del continente. Abbiamo inoltre deciso di innalzare e istituzionalizzare i rapporti politici bilaterali con il Sudafrica.

Lei è un noto estimatore del Meeting, di cui ha favorito nel tempo l’apertura internazionale. Come questo è potuto avvenire e che cosa insegna ai rapporti tra le nazioni, oggi?

Credo profondamente nella conoscenza e nel dialogo tra popoli in quanto strumenti fondamentali per una politica internazionale al passo con i tempi, giusta ed efficace. Il Meeting offre in questo senso un contributo fondamentale che non posso che sostenere. Un mondo stabile e sicuro per tutti può essere solo un mondo aperto e che si conosce meglio. Le chiusure e le introversioni al contrario, oltre a risultare anacronistiche in una realtà sempre più interdipendente, provocano tensione e instabilità.