La cancellazione dell’incontro tra il presidente del Consiglio italiano ed il Segretario di Stato del Vaticano è una reazione sproporzionata, soprattutto in relazione al fatto che un “vulnus” di ben maggiore portata ai massimi livelli istituzionali era passato in quelle ore quasi inosservato. La situazione appare più che caotica quasi surreale. Mezzo governo a Rimini applaudito sui temi della sussidiarietà – dalla politica estera alla politica economica e all’istruzione – mentre l’opposizione applaude il presidente della Camera come leader della fronda antiberlusconiana nel Pdl che attacca il Vaticano: questo lo sfondo di uno dei più gravi “incidenti diplomatici” tra Italia e Santa Sede degli ultimi anni, che segna l’inizio del nuovo “anno scolastico” della politica italiana.



Sia nella maggioranza sia nell’opposizione il rientro dall’estate appare infatti piuttosto disordinato nonostante le scadenze impegnative e soprattutto la prova d’esame da affrontare tra pochi mesi, all’inizio di primavera, delle elezioni regionali.

Gli attacchi personali a Berlusconi avevano lasciato il segno nelle elezioni europee ed avevano alimentato speranze e timori di una caduta rapida e catastrofica. Così non è stato. È quindi ricominciato il dissertare sulla “anomalia” Berlusconi e sulla necessità che in Italia si realizzi una convergenza sulle cose più importanti da fare, evocando il modello francese della Commissione Attali. Soprattutto nei “piani alti” della sinistra italiana non si vuole ammettere che Berlusconi non è un’anomalia, ma la logica conseguenza del crollo del “sistema dei partiti” sulla base di una eccezione d’infamia. È evidente che il risultato di Mani Pulite sarebbe stato Paperon de Paperoni. Anche da sinistra è stata giocata in questi anni la carta Paperon de’ Paperoni, ma prima con Carlo de Benedetti e poi con Renato Soru si è fatto un buco nell’acqua. Ora forse c’è l’ipotesi Montezemolo.



In verità la sinistra non esce da uno stato di crisi, perché da un lato non è capace di una lettura non demoniaca dell’Italia che non l’ha votata e dall’altro, come ha recentemente evidenziato Giuseppe De Rita, “il Pd non tocca palla” circa i mutamenti in corso nella società italiana. Non solo la sinistra non cela il malumore per le dichiarazioni – da Obama a Draghi – circa la fuoriuscita dalla crisi economica, ma il dato tombale per la sua “ideologia” è che i punti di forza della società italiana si sono rivelati quanto essa aveva tradizionalmente disprezzato e osteggiato: dalla diffusa proprietà immobiliare al risparmio “piccolo borghese”, alla piccola e media imprenditoria. È stato l’“otto settembre” del dirigismo statale, dell’alta finanza e delle “grandi famiglie”. Berlusconi è apparso con i suoi limiti e debolezze come un leader pragmatico che prende l’Italia per quello che è e cerca di far funzionare le cose, e di venir fuori dalle emergenze riuscendo anche ad ammortizzare le spinte centrifughe a Nord e a Sud. Da sinistra invece è ancora diffuso il cliché del leader che ha un modello di società in testa e poca competenza pratica. Quel che indebolisce la sinistra non è tanto il fatto che il governo abbia, tutto sommato, non sfigurato e dato buona prova nel confronto con gli altri governi, ma che con la crisi siano aumentati e si siano rafforzati i soggetti sociali con cui non riesce più a comunicare. Da qui la ragione di fondo del progressivo calo elettorale, indipendentemente dalle traversie in seno al centro-destra.



Il Pd che “non tocca palla” può però favorire l’emersione di conflittualità che covano nella maggioranza, come ha dimostrato la vicenda siciliana dove la sinistra è ai minimi storici. 

Uno dei tre principali leader della maggioranza che va a farsi applaudire al raduno del principale partito dell’opposizione promettendo che come presidente della Camera farà di tutto per modificare una legge approvata dal Senato in quanto troppo “cattolica” fotografa bene il momento critico. In verità la presa di posizione di Fini avrebbe potuto essere ineccepibile se fosse stata presentata come la preoccupazione di una figura istituzionale che auspica le più ampie convergenze nella propria aula. Ugualmente ipotesi sulle ambizioni personali che l’avrebbero ispirata non avrebbero nulla di scandaloso: il fatto che la terza carica dello Stato aspiri a diventare la prima raccogliendo consensi nello schieramento opposto è uno scenario che si ripete dal dopoguerra, da Giovanni Gronchi in poi. In questo caso però c’è dell’altro: Fini non ha giocato la carta della conciliazione, ma della drammatizzazione. L’applauso è stato da lui cercato non con un appello all’unità, ma con un appello alle armi, eccitando l’opposizione contro un grave pericolo incombente, additando cioè posizioni negative da denunciare e da battere in seno alla maggioranza parlamentare ed ergendosi a baluardo della laicità contro lo stesso Vaticano che si intrometterebbe in modo scorretto nel funzionamento delle istituzioni e nell’attività legislativa dello Stato italiano. È balzato in primo piano uno stato di emergenza, un allarme straordinario circa la laicità dell’Italia.

Proseguendo su questa linea di drammatizzazione e di polemica in seno alla maggioranza e a livello istituzionale Fini rischia però di perdere il suo più prezioso punto di forza e cioè il “gioco di squadra” con il Quirinale. Pare improbabile che Giorgio Napolitano scelga la strada dello scontro con il Vaticano e, in generale, dei “contropoteri”, da lui sempre considerati (anche all’epoca del Pci) una agitazione sterile e negativa, mettendo inoltre a rischio il suo principale risultato: la “coabitazione” tra Quirinale e Palazzo Chigi che comporta tallonamento e giudizi critici, ma anche distensione e rispetto, la messa al bando dei toni accesi. È così che la crisi Italia-Vaticano e l’acuirsi dello scontro (con effetti paralizzanti) nel Pd vedono crescere il ruolo di sovrintendenza del Quirinale. Un’altra anomalia?