Per affrontare la crisi economica il governo, oltre al nuovo decreto anticrisi, può far anche registrare l’accordo tra Abi e associazioni imprenditoriali per la moratoria dei crediti alle imprese. Per Pierluigi Bersani, responsabile economico del Pd e candidato alla segreteria del partito, occorre però fare di più: una manovra che inietti “soldi nuovi” nel sistema. Non è un caso, quindi, che i problemi della maggioranza – secondo Bersani – più che alle vicende personali del Premier, siano legati alla gestione di questa delicata fase di crisi economica.



 

Onorevole Bersani, all’interno dell’opposizione lei ha preso una posizione controcorrente sostenendo che i maggiori problemi della maggioranza non vengono tanto dalle vicende personali del premier, quanto dall’economia. Quali sono a suo avviso le scelte economiche sbagliate di questo governo?

Sicuramente le vicende personali del premier stanno mettendo in cattiva luce l’Italia sul piano internazionale, però l’opinione pubblica interna avverte maggiormente l’incapacità del governo di dare risposte efficaci ai grandi temi sociali. Anche la conduzione della crisi, che è molto efficace dal punto di vista mediatico, all’atto pratico inizia a generare scontentezza. Tutto questo mentre ormai anche all’interno della maggioranza ci si rende conto che stiamo andando incontro a una nuova crisi della finanza pubblica e quindi sarà molto difficile dare risposte alle aspettative che le diverse componenti avanzano. La recente diatriba sul Sud ha questa origine.



Quali sono gli aspetti della manovra economica del Governo che non la convincono?

Innanzitutto il ricorso ai condoni. Un imprenditore sa che il 38% degli utili andrà in tasse, questo meccanismo di condoni continuo lo incentiverà a portare i suoi soldi in Lussemburgo, aspettando l’arrivo di una sanatoria grazie alla quale potrà “ripulirli” pagando solo il 5%. Sono convinto che in questo modo si continuano a portar via i soldi dalle imprese e dal lavoro. Alla fine del percorso dei condoni, tra l’altro, c’è sempre una maggiore pressione fiscale su chi le tasse le paga.

Cosa pensa dell’accordo raggiunto per la moratoria dei crediti alle imprese?



È sicuramente utile, ma se questi meccanismi concertativi non prevedono che vengano messi in circolo capitali freschi, diventano difficili da applicare e possono aiutare solo chi non ha attualmente grossi problemi, mentre che è in difficoltà non otterrà benefici importanti.

Serve perciò una manovra anticrisi che trovi “soldi nuovi”, da far rientrare in tre anni. Sono responsabilità che un governo deve sapersi prendere, al posto di pensare a finte manovre in cui i soldi sono sempre gli stessi.

Come risponderebbe a chi portasse come obiezione alla sua proposta il fatto che abbiamo un deficit alto e un grande debito pubblico?

 

Risponderei che non è necessario spiegarci questo problema, perché siamo i premi Nobel del rapporto deficit-Pil. È chiaro che se serve un una tantum di 15 miliardi di euro bisogna trovare questi soldi con misure di rientro in tre anni significative, credibili per i mercati, ridando così fiato all’economia. La teoria per cui noi non possiamo far nulla, da un lato non dà stimoli all’economia, dall’altro ci porterà a una crisi della finanza pubblica.

 

A ottobre ci sarà il congresso del Pd. Come vede la corsa alla segreteria che lei dovrà contendere a Franceschini e Marino?

Il problema non è tanto il confronto tra quello che sosteniamo Franceschini, Marino ed io, quanto quello di dare un giudizio su questi primi venti mesi di vita del partito, analizzando quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato, individuando le correzioni da apportare. Ciascuno dirà la sua, poi gli iscritti e gli elettori decideranno.

Io insisto su alcuni elementi di correzione che riguardano in particolare: l’identità di questo partito; il messaggio fondamentale da dare al Paese, che deve essere sempre più rivolto ai ceti popolari e produttivi; la vocazione maggioritaria, quindi il tema delle alleanze; la struttura e l’organizzazione del partito stesso, che deve essere radicato meglio. Su ciascuno di questi temi ho le mie proposte.

Lei ha affermato che il Pd ha due radici, quella socialista e quella popolare. L’assetto che aveva dato Prodi all’alleanza aveva il merito di dare ad ognuna delle due componenti una casa. Lei pensa di riuscirci? Non teme la fuoriuscita dei cattolici?

No, non ho questo timore. Sto cercando di lanciare un messaggio che per ora è frainteso: ai giovani che fra dieci anni ci chiederanno dove è nato il Pd non potremo rispondere “dalla fusione di Ds e Margherita”, perché non sapranno nemmeno di cosa stiamo parlando. Siamo invece all’interno di una storia più lunga. Voglio che siano riprese come grandi ispirazioni quelle radici che nei primi cinquant’anni della storia nazionale diedero luogo a meccanismi di auto-organizzazione e solidarietà che possono rendere la società migliore per tutti. Sto parlando delle radici cattoliche, popolari, solidali, socialiste.

La nostra deve essere una linea una linea non classista, non ribellista, in cui le convinzioni profonde religiose, morali, etiche rappresentano una forza eccezionale e utile, anche se devono riuscire a distinguersi dall’autonomia della politica che deve prendersi le sue responsabilità di mediazione. Credo davvero che questa strada sia percorribile.

Lei ha dichiarato di voler ingrandire il partito al punto da intercettare i voti che adesso premiano Di Pietro senza rompere l’alleanza, ma anzi ampliandola. Questo può voler dire che il suo Pd avrà in parte i toni e i contenuti dell’Idv?

No, io penso che il Pd si debba caratterizzare come un partito nell’opposizione tiene insieme il tema democratico e il tema sociale. In questo senso c’è una differenza netta nel modo di fare opposizione rispetto a Di Pietro. Se il Pd riuscirà a dimostrare di essere il perno di una possibile alternativa potrà intercettare quei voti che adesso seguono l’urlo più percepibile, lo sfogo. Ciascuno poi, compreso Di Pietro, deve capire che un conto è puntare a crescere come forza politica, un altro è essere utile come forza di alternativa.

Alcuni esponenti del Pd sono sotto inchiesta a Bari. Siamo usciti da tangentopoli o no?

Queste sono cose che vanno affidate alla magistratura. Per quello che apprendo e riesco a capire, l’esito sarà che il Pd avrà poco a che fare con questa vicenda.

Cacciari sostiene che per uscire dalla crisi del nostro sistema politico serve un confronto bipartisan sulla diagnosi dei problemi, dopo la quale si può tornare a dividersi. Lei condivide questa impostazione, se sì, quali riforme metterebbe sul tavolo del confronto?

Innanzitutto due temi: la crisi sociale ed economica e gli elementi di deformazione del nostro processo democratico. Forse non ci stiamo accorgendo che il Parlamento non c’è più, tra una legge elettorale che nomina i parlamentari e un meccanismo che vede 23 voti di fiducia all’anno e un decreto o due al mese. È evidente che stiamo cambiando sistema senza accorgercene.

C’è una crisi morale e culturale nell’Italia di oggi?

Siamo un Paese che per tradizione ha una certa debolezza di spirito civico. In questi ultimi anni questa debolezza è stata incentivata grazie al centrodestra e al modo con cui Berlusconi cerca di raccogliere il consenso. È come se si predicasse l’abbassamento dell’asticella.

Io voglio che il mio partito sia il partito della riscossa civica, dell’idea che ognuno debba far per bene il suo mestiere, che la politica sia più sobria, che il merito debba contar qualcosa in concreto e non in astratto, che un giovane possa trovare il lavoro che sa fare senza dover girare “le sette chiese” e che si possano abbassare le tasse perché vengono pagate da tutti. Riguardo a questo ultimo punto, occorre trovare dei meccanismi che incentivino la crescita della fedeltà fiscale. Oggi è bassa non solo per una cattiva predisposizione, ma anche per quei meccanismi che incentivano l’infedeltà.