Il Presidente della Camera fa indubbiamente il suo mestiere, quando segnala la necessità che il Parlamento non sia privato della possibilità di discutere con i tempi dovuti le iniziative del Governo. Tutti sanno, d’altra parte, che il continuo ricorso alla questione di fiducia (magari sui cosiddetti maxiemendamenti governativi o sulla conversione in legge di decreti-legge) deprime il ruolo dei singoli parlamentari e della stessa istituzione-Parlamento, trasformando quest’ultima in una sorta di votificio permanente, in cui i primi hanno il solo compito di fare attenzione a quale pulsante schiacciano. Non è un problema nuovo e non è certo colpa di Berlusconi, se si passa la battuta: l’esecutivo di Prodi era accusato, dalla sinistra di Rifondazione, delle stesse nefandezze anti-parlamentari. La questione è strutturale e ha le sue cause nelle scelte dei costituenti di sessant’anni fa e in riforme sempre annunciate e mai realizzate.
Oggi, si può semmai segnalare una differenza di accenti non secondaria tra i due Presidenti delle Camere: mentre Fini rivendica il ruolo classico di un Parlamento “di discussione” e non solo “di lavoro”, il Presidente del Senato Schifani torna a sottolineare la necessità di riformare il bicameralismo perfetto, eliminando la navette delle proposte e dei disegni di legge tra un ramo e l’altro, implicitamente dando corda a chi accusa i lavori parlamentari di essere troppo lenti.
La velocità di risposta delle istituzioni è un tema da non banalizzare. Non è che Fini si schieri a favore delle lungaggini, e Schifani e il Governo vogliano invece “motorizzare” la produzione normativa. Certo è però che, da una parte, la mancanza nei regolamenti parlamentari di corsie preferenziali per i disegni di legge governativi di particolare importanza e urgenza induce l’esecutivo a utilizzare – distorcendone la ratio – gli strumenti del decreto-legge e della questione di fiducia (entrambi “strozzano” la discussione parlamentare). Dall’altra parte, al cospetto di certe scelte troppo precipitose contenute nei recenti decreti, viene da rivalutare il ruolo di riflessione e ripensamento che ha l’esame delle leggi da parte di due camere anziché di una soltanto.
Un nuovo equilibrio fra esigenze diverse e potenzialmente confliggenti dovrebbe essere trovato: non umiliare il Parlamento e non inchiodare il Governo a lentezze incomprensibili. Il fatto è che questo equilibrio andrebbe trovato non tanto confidando in riforme improbabili (chi crede ancora alla tanto annunciata “legislatura costituente”?), quanto piuttosto attraverso la prassi dei rapporti tra gli organi costituzionali di vertice.
E proprio questa prassi è del resto in movimento: basti solo pensare all’attivismo del Quirinale, che interviene sempre più spesso sulle materie più disparate (da ultimo, persino sulla trattativa Rai-Sky), a segnalare che l’assenza di una opposizione politica in Parlamento (il Pd oggi si sta occupando di se stesso e non del Paese) richiede contrappesi “straordinari”, che suppliscano alle carenze altrui.
È ovviamente presto per dire se – non tanto paradossalmente – l’assenza di una vera opposizione (a parte quella di Di Pietro) produca non già il rischio di una “dittatura della maggioranza” ma uno slittamento verso un’ipertrofia del ruolo del Capo dello Stato. Un Presidente che, per sfiducia nella maggioranza o per dovere di garanzia, metta silenziosamente e lentamente ”sotto tutela” il Governo. Le norme costituzionali vigenti, per parte loro, sono sufficientemente vaghe e incerte per non impedire questo slittamento.
Quel che è certo è che siamo di fronte ad un panorama costituzionale in movimento, dietro l’apparente bonaccia estiva.