Tanto rumore per nulla. O quasi. Bersani, insomma. L’attesa del suo discorso al Palalido milanese non era di quelle così, tanto per aspettare. Inoltre il candidato alla successione di Franceschini aveva suscitato un qualche interesse. Perché è Bersani, e perché dal suo gesto di sfida qualcuno avrebbe potuto dedurre qualcosa di più di una concorrenza numerica all’attuale segretario dei democrat.



Posto infatti che, sulla carta, Bersani ha la vittoria in tasca non fosse altro che per il fatto di costituire per i postcomunisti una sorta di ultima spiaggia identitaria, l’esternazione milanese avrebbe dovuto offrire l’altro lato, se c’è, del Bersani erede della tradizione “riformista” di stampo emiliano. Non è andata così. L’idea sottesa al Bersani-pensiero ha bensì un richiamo emiliano, ma nel senso di Bologna, la città di Prodi, cioè dell’Ulivo. Un vago sapore ulivista la pervade e non si capisce bene che cosa possa costituire di nuovo una simile ipotesi “politica”, posto che la sconfitta più cocente è stata proprio quella dell’Ulivo (non)governante di e con Prodi, vera e propria madre di tutte le mancate vittorie della sinistra su Berlusconi. Un’idea vecchia che ritorna nell’illusione di una sommatoria vincente, come se non avessimo già visto questo film.



Ma l’aspetto più inquietante è l’ipoteca che il dipietrismo sembra porre anche su Bersani dopo che la sua sinistra ombra ha portato iella a Veltroni. E al suo successore. Perché di questo, alla fine, si tratta, per il Pd: liberarsi una volta per tutte da un condizionamento giustizialista che l’ha purtroppo contaminato nei lontani anni di Mani pulite e che non l’ha più abbandonato, come si trattasse di un virus senza antidoti, di una nuova peste.

Cos’è infatti una sinistra di oggi, gravata dall’ipoteca dell’ex Pm e mescolata in un’indigesta commistione fra ex-Dc ed ex-Pci, se non un soggetto non autonomo, non in grado di sviluppare una progettualità autentica, incapace di far fronte a un premier con proposte politiche convincenti? Del resto, l’appiattimento del Pd sulla linea aggressiva e ad personam, portata avanti dal gruppo editoriale facente capo a De Benedetti, è un’ulteriore conferma della subalternità di questa sinistra. Che si lamenta della reazione berlusconiana accampando minacce alla libertà di stampa senza rendersi conto che il cambio di strategia del Cavaliere è dovuto non solo, o non tanto, a una legittima difesa, quanto soprattutto alla consapevolezza del premier di non avere un’opposizione con cui interloquire.



Il vero nodo sta tutto qui. Il problema è politico e riguarda solo di striscio l’incidente, peraltro serio, con la Chiesa, che ha caratterizzato il caso Boffo. È la questione del ruolo di un’opposizione comme il faut, di una minoranza che lotta per diventare maggioranza,di una sinistra, insomma, che sappia porsi come progetto credibile, come concreta alternativa di governo. Del resto, nelle democrazie mature, se è ovvia la reciproca legittimazione, non è meno necessaria un’opposizione vera in grado di pungolare chi sta al governo senza fare sconti, ma anche senza ricorrere alle maldicenze, alle micidiali e martellanti campagne diffamatorie. Che diventano un boomerang per chi le traduce in strategia politica. Danneggiando se stessi (e fin qui sono affari loro), ma soprattutto il paese. Il risultato, infatti, è di svuotare sempre più la politica, relegandola in quel ruolo ancillare da cui la voleva trarre fuori il maestro di Bersani, D’Alema. A parole: predicando bene e razzolando male.