I segnali di dialogo fra Confindustria e Cgil visti in questi giorni vanno accolti positivamente. È importante che le parti sociali riprendano a parlarsi, soprattutto in un momento come l’attuale in cui la crisi continua a minacciare la nostra economia, il futuro di tante imprese e l’occupazione di centinaia di migliaia di lavoratori. Si tratta di vedere se questi accenni di disgelo avranno seguito e come. Altre volte nei mesi passati sono stati abbozzati, ma non hanno prodotto risultati.
Il primo banco di prova è il rinnovo dei contratti collettivi. Le vertenze aperte riguardano tutti i settori principali: oltre tre milioni di lavoratori nel settore pubblico, 1,1 milioni nella scuola; 1,3 milioni di metalmeccanici; quasi due milioni di lavoratori nell’edilizia, oltre 1,8 milioni fra agricoltura e alimentari; 950 mila nei trasporti, 620 mila chimici. Le condizioni già critiche di questi settori sarebbero ulteriormente aggravate da un autunno conflittuale; e il conflitto sarebbe tanto più probabile se i sindacati arrivassero all’appuntamento dei rinnovi contrattuali con piattaforme divaricate.
Il punto critico è di vedere come possano superarsi nelle varie trattative di categoria le divisioni fra sindacati che hanno portato la Cgil a non firmare l’accordo quadro del 22 gennaio scorso sulle regole e sulla struttura contrattuale. È difficile pensare che le confederazioni firmatarie accettino di sconfessare l’accordo quadro cambiando tali regole, a cominciare da quelle sull’indice per il calcolo degli aumenti salariali nazionali.
Ci sono però margini di elasticità che possono essere utilizzati, se c’è la volontà di farlo; lo si può fare specialmente operando sulla determinazione della base retributiva di calcolo cui applicare l’indice, tenendo conto delle specificità occupazionali e retributive delle diverse categorie. Tentativi di trovare un compromesso unitario sono già in atto nella categoria degli edili e hanno avuto buon esito fra gli alimentaristi. Mentre le posizioni restano distanti nel settore metalmeccanico (non è la prima volta).
Chiudere senza traumi il ciclo dei contratti nazionali darebbe un segnale positivo a tutto il sistema; e permetterebbe di avviare una contrattazione decentrata (in sede aziendale e territoriale) che stimoli effettivamente la produttività, stimolando la partecipazione dei lavoratori ai risultati aziendali. Di più produttività e di partecipazione c’è gran bisogno, se vogliamo che l’economia del paese riparta. Questo è il messaggio che sta alla base anche delle proposte di legge all’esame del Senato, che vogliono promuovere un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle imprese (non la cogestione) secondo le indicazioni europee.
Il dialogo fra le parti sociali non dovrebbe però riguardare solo i contratti collettivi. Sarebbe utile che si estendesse alle questioni dell’emergenza economica, e operasse al fine di concordare una linea di azione comune per uscire dalla crisi. Una unità di intenti anche su questo punto sarebbe un altro segnale positivo, darebbe fiducia a lavoratori e imprese, solleciterebbe il governo a fare di più per stimolare l’economia, cioè i consumi e gli investimenti.
Una apertura significativa al riguardo è arrivata dalla disponibilità manifestata dal ministro Tremonti di fare finalmente una vera riforma degli ammortizzatori e di farla ricercando il consenso di tutti. Sia le parti sociali sia il Pd lo chiedono da tempo. Se l’annuncio avesse seguito sarebbe un altro fatto positivo, per lavoratori e per le imprese.