In un crescendo rossiniano si intensificano le esternazioni “laiche” del Presidente della Camera Gianfranco Fini. Peccato che, per la sua storia personale, esse stridano come le clamorose stecche di un tenore sfortunato. Ultimamente, quello che fu un tempo il segretario del MSI – oggi corteggiato dalla sinistra laicista e anticlericale – sembra essere preda di una sorta di eccesso di zelo nell’assecondare le pulsioni liberal dell’area culturale soi-disant laica. Dalla fecondazione assistita alla morte dignitosa, dal multiculturalismo allo Stato Etico, dai silenzi di Pio XII alle ingerenze vaticane, dal caso Englaro alle unioni civili. Tutti i piatti forti del classico menù offerto dal politically correct. Una delle ultime uscite – in attesa che si pronunci anche in favore della sentenza del TAR Lazio sugli insegnanti di religione – riguarda l’autorizzazione dell’AIFA all’utilizzo della pillola abortiva RU486.



«È originale pretendere che il Parlamento si debba pronunciare sull’efficacia di un farmaco». Questa è la sarcastica e lapidaria battuta con cui il Presidente della Camera ha liquidato la richiesta di un dibattito parlamentare inoltrata da un suo (ex?) colonnello, Maurizio Gasparri.

Anche questa volta, però, l’uscita del Presidente della Camera non convince.



Fini meglio di tutti dovrebbe conoscere quel triste fenomeno chiamato iperlegislazione – male endemico che affligge il nostro Paese –, ovvero la smania di normare tutto (persino l’ora legale è fissata con un provvedimento normativo), fenomeno grazie al quale è possibile trovare la risposta a qualunque domanda. Persino cosa sia un farmaco. Infatti, proprio dal Decreto Legislativo 24 aprile 2006, n. 219, avente per oggetto l’«attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE», si può ricavare una chiara definizione di quello che secondo il nostro ordinamento giuridico si può definire farmaco, ovvero: «1) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane; 2) ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica».



Ora, che alla pillola RU486 si possano riconoscere «proprietà curative o profilattiche delle malattie umane» è affermazione che farebbe arcuare le sopracciglia anche al più incallito clown dei paradossi logici. E a meno che il Presidente della Camera non consideri la gravidanza come una seria patologia e l’embrione come l’agente patogeno da estirpare (cosa che ci sentiamo – almeno finora – di escludere), davvero è difficile immaginare come Fini possa attribuire alla kill pill proprietà medicinali. Sarebbe come considerare farmaci il Pentotal ed il Pavlon utilizzati nell’iniezione letale propinata ai condannati a morte in alcuni Stati degli USA.

In realtà, la pillola RU486 non rappresenta altro che una modalità di esecuzione del processo di interruzione volontaria della gravidanza e come tale soggetta alla Legge 194/78. Sarebbe davvero difficile, oltre che singolare, impedire un dibattito parlamentare in materia. Ancor più difficile se si pensa che le Camere possono dibattere, ad esempio, di «misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza del randagismo nel territorio nazionale», del «divieto delle macellazioni effettuate secondo particolari riti religiosi» delle «norme per la tutela degli equini e loro riconoscimento come animali di affezione». Davvero non ci sarebbe spazio per dibattere delle modalità di esecuzione e soppressione dell’embrione umano? Ci permettiamo di dubitarne.

Il fatto è che ormai Gianfranco Fini è condannato a recitare il ruolo di primo alfiere istituzionale della Laïcité Républicain, imprigionato nell’angusto spazio che si è voluto ritagliare.

Un consiglio al Presidente della Camera, però, ci sentiamo di darlo. Lui che è un’abile animale politico e fine diplomatico (ha pure avuto l’incarico di dirigere la Farnesina) prenda lezioni da Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, cui sembra ogni giorno di più assomigliare. Talleyrand nella vita riuscì a recitare un numero incredibile di ruoli. Fu principe, vescovo, ministro, diplomatico, ma soprattutto finissimo stratega, e campione assoluto del camaleontismo. Un raffinato trasformista che riuscì a fare dell’ipocrisia una risorsa intellettuale. Ma tra le sue règle d’or ve n’era una, in particolare, che egli non esitava a propinare sempre a propri collaboratori: «Surtout, pas trop de zèle». Soprattutto, niente zelo eccessivo.

Il Presidente della Camera farebbe bene a raccogliere l’aureo suggerimento.