Per comprendere entità e sviluppi del contrasto Fini-Berlusconi in seno al Pdl bisogna partire dal Pd. Il partito di governo va infatti portando alla luce tutte le tensioni interne – ed anche le dilata – perché non si trova in stato di assedio. Certamente ha le sue difficoltà nel mantenere impegni e fronteggiare imprevisti, ma in sostanza vive in una sostanziale inesistenza dell’opposizione in Parlamento. Si direbbe che la sinistra non si sia ancora ripresa dallo choc elettorale che portò Veltroni a gettare la spugna. A ciò si è aggiunta, oltre all’arretramento nelle europee, la dilatazione dei tempi per darsi una nuova leadership: quattro mesi di congresso interno. In sostanza abbiamo un’opposizione che si è ritirata dal Parlamento in una sorta di polemico “Aventino” puntando sulla piazza, sul Quirinale, su eventi straordinari e salvifici determinati da magistrati, prostitute, organi dello Stato, malattie, ma che non produce più nulla sul piano parlamentare.



Da ormai un anno e mezzo non si segnala una sola iniziativa, alla Camera o al Senato, per mettere seriamente in difficoltà la maggioranza e si assiste invece ad uno stato non solo di logorio dell’opposizione, ma anche di caduta di attenzione da parte del suo stesso elettorato. Massimo D’Alema continua a voler recitare la parte dell’“attor giovane”, ma anche per lui i decenni passano senza che egli, che pure è il più autorevole esponente del Partito democratico, abbia mai messo a fuoco una “idea forza”. Ha continuato solo ad aspettare le “scosse”.



Abbiamo pertanto al centro della dialettica politica la divaricazione in seno alla maggioranza. È una situazione che ricorda il 1983 quando il Pci si era auto isolato ed alla vigilia del voto Eugenio Scalfari, rendendosi conto che Berlinguer non esisteva più come antagonista alle ambizioni socialiste, titolava: “O De Mita o Craxi”. Anche oggi il “tifo” di Repubblica e del “popolo di sinistra” è tutto concentrato non su Franceschini o Bersani, ma su Fini come unico serio rivale di Berlusconi.

È Fini una reale minaccia che può portare a un “ribaltone”? Forse. Dispone ufficialmente di una cinquantina di parlamentari e forse anche molti di più, stando a letture attente del voto segreto. Se Berlusconi pensa di disfarsene con un ricorso anticipato alle urne imbocca una strada ad alto rischio. Il capo dello Stato, sicuramente molto prudente se non riluttante, non procederà automaticamente in quanto per Costituzione deve acquisire prima il parere dei presidenti di Camera e Senato. Ci troveremmo ovviamente di fronte ad una non unanimità nel vertice istituzionale e – sulla base di innumerevoli e univoci precedenti – toccherà proprio a Fini, come presidente della Camera, l’“incarico esplorativo” per verificare se vi sia la possibilità di trovare una maggioranza assembleare al fine di evitare le elezioni. È quindi preferibile evitare rotture irreversibili.



Anche il presidente della Camera per altro non sembra più intenzionato ad andare a cercare gli applausi attaccando il capo del governo (e la Chiesa) nei raduni dei partiti dell’opposizione parlamentare. Quel che l’opposizione può offrirgli è solo “un giro di valzer” inglorioso. Che cosa sarebbe un governo del non voto? Un’ammucchiata inconcludente che farebbe rimpiangere come un “paradiso perduto” l’attuale compagine governativa avviandosi ad un duro responso elettorale.

Fini ha quindi preferito le sedi di partito per precisare ed anche accentuare il suo dissenso. Dal punto di vista dei contenuti il suo dissenso non mina il processo di unificazione del Pdl. Al contrario si deve a Fini il fatto di aver introdotto una dialettica che non rispecchia più la divisione tra ex An ed ex Forza Italia. Il dibattito sui contenuti facilita un rimescolamento delle carte che può essere positivo.

La prospettiva vincente per Fini è quella di proporsi come una sorta di Sarkozy rispetto a Chirac: una carta più moderna per affrontare il futuro conquistando dall’interno “il partito del presidente”. Da questo punto di vista è stata però un errore la raccolta di firme dei parlamentari ex An. Primo: perché è noto che un numero significativo non lo segue nella contrapposizione. Secondo: perché ripropone la non integrazione tra i due ex partiti. Le richieste avanzate da Bocchino stanno portando Fini molto indietro rispetto alle sue ambizioni e cioè lo restituiscono alla dimensione di leader della componente minoritaria che vuol essere garantita, come i socialdemocratici quando si erano unificati con i socialisti. Anche allora – era il 1966 – si ebbe il regime dei co-segretari e finì con una scissione che azzerò ogni ambizione.

È l’essere cosegretario il traguardo? Un “camino” a Roma in parallelo al “lunedì ad Arcore” di Bossi? È un obiettivo che forse può garantire i gregari sul piano delle nomine, ma non è né un gran problema, né una novità. Per il Pdl significherebbe essere governati non da una monarchia, ma da una diarchia che lo ingesserebbe ulteriormente. A Berlusconi imporrebbe uno spreco di tempo e di pazienza e a Fini una grigia e vincolante mezzadria.

Più sveglio di Bocchino sembra invece essere Alemanno che incoraggia il rimescolamento delle carte. Mentre il vice-vicario del gruppo Pdl alla Camera si muove in una logica difensiva e contrattualistica avendo in mente la salvaguardia della propria provenienza, il sindaco di Roma punta ad una pari dignità nell’assumere la leadership unitaria del Pdl a seconda dei casi e delle capacità personali senza cristallizzarsi come componente minoritaria che chiede un regime di norme a sua tutela per garantirsi una sopravvivenza parallela (ma eternamente subalterna).

Fini ha come vantaggio non solo la posizione istituzionale, ma la storia personale di essere l’unico tra tutti i pretendenti ad aver sin dall’inizio affiancato Berlusconi rimanendo con lui e fronteggiando alti e bassi, ribaltoni, svolte e trasformazioni. A ciò egli aggiunge una credibile evoluzione personale con l’ambizione di essere un moderato, ma innovatore e non conservatore. Non è poco. Ma non tutti stanno a guardarlo: deve evitare di rimanere un ex An e di essere scavalcato dai post An.