L’avvocato del premier, Niccolò Ghedini, lo ha ringraziato domenica, al meeting del Pdl veneto a Cortina: «Brunetta ha prospettato con parole semplici ed efficaci il pensiero di molti». E divampa la polemica. A suscitare distinguo, prese di distanza o consenso nella sua maggioranza, e levate di scudi a sinistra, è stato l’attacco del ministro della Pa contro gli oligopoli e le conventicole di potere politico, finanziario e mediatico che congiurano contro il governo, per fare un ribaltone passando, ancora una volta, sopra la testa e la volontà degli elettori.



Un caso personale o un caso politico? A criticare il ministro è stato settimana scorsa L’Espresso: “Brunetta bluff”, titolava il servizio. La risposta del ministro non s’è fatta attendere: una replica “punto per punto” al dossier del settimanale sul sito istituzionale del ministero. E giù critiche.

Bluff o no, resta il fatto che la politica dello scontro frontale e dell’attacco ad personam, cominciata su alcuni quotidiani con il caso Boffo e proseguita con lo scontro Fini-Berlusconi, si è diffusa a macchia d’olio. Meglio non entrarci e fare un passo indietro, tornando a parlare, col ministro, di riforma della Pa.



Ministro, al di là delle ultime polemiche la accusano di puntare molto sulla comunicazione e sull’effetto annuncio, non crede che fare subito riforme così avanzate come quelle che lei in parte ha fatto e in parte continua a proporre, si riveli controproducente per le stesse riforme e scateni ancor più le forze conservatrici?

Pensare di conquistare l’innovazione e il cambiamento in accordo con la conservazione è un’illusione pericolosa, che condanna all’immobilismo. No, non credo affatto di avere esagerato, semmai, talora, mi rimprovero di non avere ancora osato abbastanza. In quanto all’uso degli annunci, trovo che il rilievo è davvero curioso: e che dovrebbe fare, un governo, promuovere le riforme nella riservatezza, quando non nella segretezza? Finché ho un qualche ruolo pubblico gli avversari si rassegnino, perché prediligo la trasparenza.



Il governo ha elevato l’età pensionabile delle donne nel pubblico da 60 a 65 anni e ha introdotto lo spostamento in avanti dei requisiti anagrafici per l’accesso a partire da 2015. Se questa è una “mini-riforma” molto importante, lei stesso però ha invocato «un check-up del sistema pensionistico che uscirà dopo queste modifiche». Vuole anticipare alcuni tratti salienti o alcune direzioni obbligate di questo “controllo di salute” del sistema?

L’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, nel pubblico impiego, ci è stato imposto da una sentenza della Corte Europea di Giustizia, che ci aveva condannato per aver discriminato gli uomini. Sembra quasi uno scherzo, ma è così. Ciò non toglie che sia un giusto provvedimento e, a questo punto, trovo naturale che il problema si ponga anche nel settore privato, perché, in caso contrario, avremmo una discriminazione interna, a sfavore delle donne che lavorano per l’amministrazione pubblica.

Il Codice delle autonomie è stato approvato, tanti enti intermedi sono stato aboliti ma le province sono rimaste. È innegabile che i contorni e i ruoli dell’amministrazione provinciale si sono sempre più appannati e per molti cittadini sono inspiegabili e sinonimo di spreco. Cosa dovrebbero essere le nuove province? Lei come vorrebbe ridefinirne la funzione?

Non credo che la soluzione migliore possa essere quella di eliminare alcune province, magari quelle di più recente istituzione. Non esistono infatti province di serie A e province di serie B, esistono invece enti che così come sono attualmente organizzati appaiono ridondanti e inutili. Attenzione: non va eliminata la provincia in quanto tale, anche perché per riuscirci occorrerebbe una specifica modifica della Costituzione. La mia proposta è invece quella di trasformarle in enti di secondo livello: consigli e giunte di più ridotta composizione, i cui membri vengano direttamente eletti dai consiglieri di tutti i Comuni facenti parte del territorio provinciale. Oltre alla riduzione dei costi della politica, in questo modo si otterrebbe una vera rappresentanza territoriale degli eletti, non più portatori di interessi puntuali ma semmai di interessi diffusi sull’intero territorio provinciale.

 

Lei ha detto che «le Regioni a statuto speciale godono di un privilegio finanziario che andrebbe eliminato» e ha invocato una par condicio per quanto riguarda le risorse. Se la sua riforma della Pa veniva giudicata impossibile e ancora oggi è impopolare, che dire di una proposta simile…?! Da dove cominciare?

 

La popolarità delle proposte non deve essere misurata dalla quantità di applausi che ricevono, tanto più che la platea è, per lo più, composta dai diretti interessati. Ci sono cose che saranno molto popolari in futuro, di cui l’Italia e gli italiani di domani mattina ci saranno grati, ma che sembrano difficili oggi perché incontrano molti ostacoli. Superarli è il compito di una politica che non sia mero galleggiamento e rassegnazione.

 

Uno dei problemi storici della Pa italiana è la diffusa assenza di motivazione. Come è possibile ricostruire un sistema di fiducia, dove l’impegno nel lavoro non sia dettato solo dalla paura delle sanzioni? È possibile immaginare un ruolo per le buone prassi più rilevante di quello rivestito attualmente?

 

Certo, e in questo è importante anche il ruolo dei giornalisti. Ho condotto una lunga e dura battaglia contro i fannulloni, che continua e ha riscosso molta attenzione. Ma, contemporaneamente, abbiamo portato alla luce tanti casi esemplari, tante pratiche eccellenti, con i nomi e i cognomi dei meritevoli. Solo che la cosa ha riscosso meno interesse, come se scoprire il buono desti meno curiosità che denunciare il cattivo. Poi abbiamo fatto riforme, anche del modello contrattuale, che consentiranno di premiare concretamente chi fa seriamente e con competenza il proprio dovere. Insomma, si tratta di cambiare una mentalità, un costume. Non è facile, ci vuole tempo, ma cerchiamo di procedere il più velocemente possibile.

 

Qual è la principale sfida politica del governo in autunno?

 

Non sedersi né sui successi (che ci sono, e sono molti), né davanti ai problemi (che sono seri). Ricordarsi perché gli italiani ci hanno votato e mantenere le promesse, mantenendoci fedeli a noi stessi.