Obama ha debuttato ieri alle Nazioni Unite con un discorso sul cambiamento climatico. Al centro dell’attenzione rimane però la sua posizione sull’Afghanistan. «Il paese è stanco della guerra» ha detto il presidente, che ha confermato la necessità di arrivare in tempi brevi ad una nuova strategia. Noi però non possiamo motivare la nostra presenza in Afghanistan con la semplice lealtà verso gli Stati Uniti. Il nostro governo  – spiega Angelo Panebianco, editorialista del Corriere – deve fare subito chiarezza e spiegare all’opinione pubblica che non siamo laggiù per garantire solo la sicurezza degli afghani, ma anche la nostra.



«Occorre una strategia coerente che funzioni – ha detto Barack Obama ospite dello show di David Letterman -. Devo far sì che ne valga il sacrificio, prima di decidere ulteriori dislocamenti di truppe». Come valuta queste affermazioni?

Sicuramente non se ne può andare dall’Afghanistan, lasciando il paese in mano ai talebani, perché sarebbe una sconfitta fatale per lui e per la politica estera americana, senza contare le ripercussioni sull’intero occidente. Gli servono nuovi soldi e nuovi soldati. Non sarà facile convincere ancora il Congresso, in una fase di grave crisi economica, e con i rappresentanti che hanno a che fare, a casa loro, con i rispettivi elettori. Infine non ha ottenuto dagli europei l’impegno in più che sperava di ottenere. È costretto a muoversi con molta prudenza, valutando attentamente i piani militari.



Il nostro paese ha onorato le vittime della strage di Kabul e ha ribadito gli impegni. C’è stata però la sensazione di un atteggiamento politicamente ondivago da parte della Lega. Deficit di cultura di governo o espressione di un sentire diffuso?

Direi che la Lega ha fiutato la presenza nel paese di un’opinione pubblica disorientata di fronte all’Afghanistan e che in qualche modo abbia cercato di interpretarne il sentimento. Sperando di ottenere anche un vantaggio tattico nel normale gioco di contrattazione dentro la coalizione di governo.

Ma con quali conseguenze per la nostra politica estera?



Questo non possiamo saperlo. Il vero problema è perché c’è il disorientamento di una parte, non piccola secondo i sondaggi, dell’opinione pubblica. Questo è il punto. E la mia risposta è che sia il governo Prodi, sia il governo Berlusconi non hanno dato chiare motivazioni alla gente sul perché siamo in Afghanistan. La spedizione è nata come missione di “nation building”: quando siamo andati là la guerra era sostanzialmente già finita, i talebani sconfitti e la ricostruzione da cominciare. Ma col tempo è cambiato lo scenario perché i talebani si sono riorganizzati ed è ricominciata la guerra.

E a questo punto c’è stato un deficit di informazione.

Sì. Gli europei della missione Nato si sono trovati a dover mutare il loro ruolo sul terreno: se prima si trattava di agevolare la ricostruzione, dopo si doveva difendere il paese dagli attacchi dei talebani. Questa svolta – che non è dovuta a noi e nemmeno agli Usa, ma al contesto – non è stata spiegata al paese e si è fatto finta che non ci fossero stati cambiamenti tra l’inizio della missione e oggi.

L’attentato ha reso evidente che non si tratta più di una missione di peace keeping. Anche l’ultimo eufemismo, dunque, è caduto?

La cosa più grave è la motivazione addotta dai governi. Siamo là, dicono in buona sostanza, e non possiamo andarcene altrimenti perdiamo la faccia con gli alleati. Ma questa non più essere la ragione che si dà al paese e la giustificazione di una presenza che porta ad avere delle perdite tra i soldati. Come vede, spiegare perché siamo in Afghanistan non è così semplice. Era difficile per Prodi perché la sinistra estrema non voleva sentir ragioni, ma pare che sia difficile anche per il governo Berlusconi perché ha il problema della Lega. Se non si rimotiva l’opinione pubblica i talebani l’avranno vinta, perché colpendo le truppe di paesi che hanno opinioni pubbliche pencolanti possono spingere i governi a decidere il ritiro.

Sono dunque le opinioni pubbliche a determinare le strategie dei governi?

 

 

Se in democrazia c’è, mettiamo, un 80 per cento degli elettori che vuole andar via, nessun governo democratico può scegliere diversamente di fronte ad un’istanza così forte. Il punto è che tocca alla classe politica rispiegare all’opinione pubblica le ragioni della missione. Se non lo si fa la conclusione è quasi inevitabile. Un esempio? Basta che in Germania alle prossime elezioni la sinistra veda crescere il proprio peso nella coalizione di governo. Se i socialdemocratici risultano fortemente indeboliti a favore della sinistra estrema, ecco che la Germania decide il ritiro. A quel punto l’Italia cosa fa? La risposta non è automatica.

 

È cambiata la percezione del terrorismo e del pericolo che esso rappresenta?

 

Quando parliamo di guerre asimmetriche connesse a fenomeni di terrorismo transnazionale, diciamo qualcosa di sfuggente per definizione. E non è semplice far capire all’opinione pubblica qual è il rapporto tra la nostra sicurezza qui in Europa e quello che succede tra le lontane montagne dell’Afghanistan. Ma una connessione esiste. Perché non solo i talebani avevano ospitato Al Qaeda, ma una loro vittoria sarebbe il segnale per tutto l’estremismo mondiale che l’occidente è una tigre di carta. E questo riporterebbe gli estremisti potentemente all’attacco, anche da noi, il che vuol dire Roma, Milano, Bologna, Firenze.

 

La conseguenza sarebbe una nuova escalation terroristica su scala mondiale?

 

Certamente e per due ragioni. Primo, per un effetto di galvanizzazione dell’estremismo: vedete?, l’occidente non è invincibile, può essere battuto. Secondo: l’area Afghanistan Pakistan diventerebbe una piattaforma per operazioni terroristiche. Una vittoria talebana in Afghanistan porterebbe a una sicura destabilizzazione del Pakistan, il che vorrebbe dire mettere armi nucleari in mano a forze estremiste. Con scenari disastrosi in Asia, perché a quel punto difficilmente l’India potrebbe stare ferma. Senza citare il Medio oriente. Come si vede, la messa in sicurezza dell’Afghanistan è il nostro primo interesse ed è fondamentale per la nostra stessa sicurezza.

 

A proposito di convivenza. I fatti di Pordenone (l’omicidio di Sanaa ad opera del padre, ndr.) hanno messo in evidenza un deficit di cultura dell’integrazione. Qual è la strada da seguire per il nostro paese?

 

Qui c’è poco da fare: il problema è prima di tutto italiano, perché si tratta di capire se gli italiani sono d’accordo sul fatto che non si transige su alcuni principi per noi fondamentali, da cui discendono alcune leggi della Repubblica. Scatta il giustificazionismo di una parte degli italiani nei confronti di alcuni comportamenti – e il caso di Pordenone è estremo, certo, ma è la punta di un iceberg – o c’è una volontà nettamente maggioritaria di pretendere comportamenti che vadano nella direzione dell’integrazione?

 

Lei cosa risponde?

 

Che il massimo rigore verso chi non vuole integrarsi deve andare d’accordo con un atteggiamento di grande apertura verso tutti quelli che vogliono l’integrazione e che sono una risorsa per il paese. Ma la risposta a quella domanda spetta solamente a noi. Fino ad ora abbiamo oscillato, ma non deciso.