Il Partito Democratico è vicino alla scelta del nuovo segretario. Pierluigi Bersani viene dato favorito su Dario Franceschini e Ignazio Marino, ma il 25 ottobre sarà tempo di primarie e potrebbero esserci delle sorprese. La vigilia non è però delle più serene, tra polemiche e accuse reciproche, mentre la politica italiana segue il suo corso con un Pd, ancora senza leader, incapace di incidere. Ne abbiamo discusso con Pierluigi Battista.

Il Pd, da tempo fuori dai giochi, sembra affidare alla ormai vicina scelta del nuovo leader la risoluzione di tutti i suoi problemi. Basterà una nuova leadership a riportare il Partito Democratico nell’arena politica?



Assolutamente no. Il dato rilevante di questi mesi in cui la lotta politica si è inasprita e in cui l’immagine di Berlusconi si è indebolita è che il Pd non ha avuto nessun rilievo, è stato praticamente inesistente. Chi si illude che sia un problema di leadership e carica di aspettative salvifiche la scelta del segretario commette un grave errore. La realtà è che si sta giocando una competizione interna che non sembra proprio in grado di entusiasmare.



Quali sono le ragioni di tutto questo?

A parte le procedure sempre più farraginose, le polemiche e le voci di vari mercati di tessere, come può entusiasmare la corsa per un leader che non sarà il candidato premier? La conseguenza più naturale è che questa scelta venga percepita come l’elezione di un segretario di apparato. Lei conosce il nome del segretario del partito democratico americano? Io no. Ci sarà un motivo…
La sinistra ha lo strano vizio di decidere il candidato vero a pochi mesi dalle elezioni, ma è una scelta concettualmente sbagliata. Non fece così Blair prima di vincere, non fanno così i leader dei laburisti inglesi o dei socialisti spagnoli. Dietro questo comportamento c’è un’abitudine oligarchica, la convinzione diffusa per cui alla fine si troverà un federatore, un nuovo Prodi, da decidere nei gabinetti e negli uffici di partito, per poi consacrarlo con un finto voto popolare.



Il quadro che sta delineando fa sembrare molto lontane le dichiarazioni d’intenti che avevano accompagnato la nascita del Partito Democratico e quelle che dovevano essere le novità presentate da Walter Veltroni?

Infatti, se ripensiamo al voto del 2008 non si può negare che aveva acceso la speranza di uscire dai miasmi della Seconda Repubblica, con il nuovo comportamento elettorale di Veltroni e Berlusconi. Non veniva proposta un’accozzaglia di partiti a destra e una a sinistra e c’era più chiarezza nella decisione politica. In quel Pd Veltroni non era un leader di apparato, ma un candidato premier, l’alternativa a Berlusconi. Il Pd attuale, oltre ad aver liquidato Veltroni, sembra aver abbandonato la sua vocazione maggioritaria chiara, per cui un partito si candidava alla titolarità del governo e stringeva delle alleanze con chi condivideva una certa linea.

A proposito di alleanze: quando verranno sciolti i dubbi? Franceschini e Bersani hanno due visioni diverse su questo punto?

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Questo è un punto fondamentale su cui la discussione seria tra i candidati è mancata. Purtroppo non è dato sapere che rapporti avrà il Pd di Bersani (o quello di Franceschini) con Di Pietro, con Casini, con la sinistra… Si possono fare solo ipotesi sulla base delle storie e delle appartenenze personali, ma non hanno un grande fondamento. La conseguenza pratica è che chi non si dedica abitualmente all’arte dell’alta decifrazione politica non può capire che differenze ci siano tra i due.

 

Oltre alla scelta degli alleati quali sono i nodi politici che questo partito deve ancora affrontare?

 

È sempre più evidente il disagio di Rutelli. La sua fuoriuscita non sarebbe una cosa da poco, al di là dell’aspetto numerico vorrebbe dire che la ratio alla base di questo nuovo partito si è incrinata. Il Pd teoricamente doveva trovare una sintesi tra culture politiche diverse.

 

A questo proposito è proprio di questi giorni lo scontro interno al partito sull’indagine conoscitiva sulla pillola RU486?

 

Occorre trovare una sintesi, questo è il punto. Da un certo punto di vista nessun partito di grandi dimensioni, se pensiamo anche a quelli degli altri paesi, è un monolite culturale. Ci sono delle divisioni naturali. Ma se non si arriva a una sintesi credibile dove le sensibilità diverse vengono ricondotte in un quadro generale si ottiene solo un partito inaffidabile dove ognuno fa quello che vuole.

 

I nodi da chiarire per uscire dall’impasse secondo lei quindi coinvolgono punti chiave come la leadership, le alleanze e la sintesi tra le diverse anime. Come mai spesso il dibattito finisce su formule astratte come: centro-sinistra con o senza trattino, sinistra-centro, ecc.?

 

Sono le contraddizioni mai risolte della sinistra, che da 15 anni non fa che parlare di Berlusconi. Non riesce a liberarsi da questo incantesimo. Il vuoto politico che ha lasciato è occupato dai giornali e anche a livello culturale non esiste più. Anche la sindrome da regime nasce dal fatto che non c’è una prospettiva di cambiamento e questa situazione, se non si cambia, può durare anche diversi anni. Per tutti questi motivi sono sempre più convinto che una caduta traumatica e improvvisa di Berlusconi e l’inizio ufficiale del cosiddetto “post-berlusconismo” porterebbe a un “Big Bang” della politica italiana che riazzererebbe tutto, ancor più di quando accadde dopo Tangentopoli.

 

E come si costruisce una prospettiva di cambiamento? Come può riconquistare gli elettori questo Pd?

 

Per questo occorre una vera e propria “rivoluzione culturale”. Bisogna ricomporre il legame che si è spezzato con vaste realtà produttive e sociali del Paese. Il governo Prodi su questo aspetto è stato un disastro. Con questi ceti il Pd deve vincere una diffidenza ormai antropologica, spiegando in maniera chiara cosa si intende fare. Ma per fare questo occorre un grande “bagno nella realtà”.