L’11 settembre di otto anni fa, come risultato di una cospirazione internazionale, gli Stati Uniti venivano brutalmente attaccati dall’interno. Una parte della nostra risposta è stata ridare forza a una tendenza nella storia americana che risale alla fondazione stessa del Paese e venne lanciata un’offensiva militare non solo come difesa, ma anche per cercare di eliminare le cause alla radice dell’attacco. Per gran parte della nostra storia abbiamo presupposto di avere la responsabilità, perfino l’obbligo, di assicurare agli altri i diritti umani e la democrazia. Per chi vede la storia in questo modo, gli Stati Uniti hanno preso il posto di Israele come nazione scelta, alla quale il Creatore chiede di portare il Suo, e nostro, messaggio di civiltà al resto del mondo.



Negli ultimi duecento anni, questa forma particolare di collegare il divino alla storia umana ha dato origine a una potente religione secolare dello Stato. Questa religione secolare è stata la forza trainante per molta della politica estera americana, dando giustificazioni e ragioni alla nostra espansione nell’Oceano Pacifico e a molte delle avventure e conquiste d’oltremare.



Dalla fine della Guerra Fredda e specialmente dopo l’11 settembre, questa idea della eccezionalità dell’America, con la sua missione civilizzatrice, si è manifestata innanzitutto nella determinazione di costruire nazioni (cioè Stati) sul modello occidentale, là dove esse erano “fallite” o non erano mai esistite. La logica sottostante è che un mondo di Stati democratici, sostenuti da un sistema di libera impresa, avrebbe portato la pace, perché questi Stati non ci avrebbero attaccati, o tollerato il terrorismo, e sarebbero vissuti in pace l’uno con l’altro.

 

Purtroppo, tutto ciò non ha funzionato, essenzialmente per quattro ragioni principali. La prima è che, in un mondo che si sta rapidamente globalizzando, lo Stato è diventato meno importante come unico veicolo di organizzazione e di successo politico ed economico. Pur ancora molto importante, lo Stato è ora solo uno dei diversi attori sulla scena globale. In secondo luogo, costruire una nazione richiede risorse enormi e gli USA non hanno le capacità, la determinazione e il denaro necessari a portare a termine questo compito in giro per il mondo dove noi reputiamo ve ne sia bisogno. Terzo, è arroganza presumere che tutti vogliano adottare il nostro modello, come dimostrano i vari gruppi che costantemente si battono contro questa ipotesi. Infine, malgrado le nostre dichiarazioni, non vi è nessuna inevitabile connessione tra terrorismo e tipi particolari di comunità politiche: il terrorismo può crescere in Paesi di “successo” come in Paesi “falliti”.    



 

Negli ultimi due decenni abbiamo tentato di costruire nazioni in questo senso in diversi posti critici, ma abbiamo fallito (o stiamo fallendo). Nei primi anni ’90, gli sforzi di costruire uno Stato in Somalia sono stati vani e il tentativo non è stato più ripreso. Qualche tempo dopo abbiamo provato con la Bosnia e, dopo quindici anni di agonia, la Bosnia è ora sull’orlo del collasso. Nonostante la violenza si sia in generale ridotta in Iraq, l’obiettivo perseguito della costruzione di uno Stato moderno, unito, multietnico, con un mercato libero, non si sta verificando e ci sono crescenti segnali che i progressi fin qui ottenuti possano essere annullati, una volta che i soldati americani siano partiti. Infine, come la Somalia, l’Afghanistan non è mai stato uno Stato nel senso occidentale del termine e i sacrifici in vite umane e in risorse materiali non valgono la ricerca di un risultato che mai potrà essere raggiunto.

È ovviamente giusto opporci a coloro che tentano di farci del male ed è giusto offrire consiglio e sostegno a coloro che ce lo chiedono, ma è da folli cercare di costruire comunità politiche a nostra immagine in giro per il mondo. Sarebbe molto meglio dare ascolto a quanto diceva John Quincy Adams nel 1821:  «L’America non va all’estero in cerca di mostri da distruggere. Essa simpatizza per la libertà e l’indipendenza di tutti, ma difende e vendica solo ciò che è suo» .

 

Pubblicato su Capital Commentary