Il Partito Democratico aspetta di conoscere il suo nuovo segretario, ma il cammino verso le primarie del 25 ottobre è lungo e rischia di diventare logorante, tra polemiche, accuse e un dibattito interno che sembra non “bucare” l’opinione pubblica e l’attenzione dei giornali. Luciano Violanteanalizza il delicato momento del Pd a pochi giorni dal voto tedesco che ha visto il crollo dei socialdemocratici di Steinmeier.



Presidente Violante, le elezioni in Germania hanno fatto registrare il peggior risultato dal dopoguerra per l’Spd (un calo di ben 10 punti percentuali) e l’affermazione di Angela Merkel alla guida di una coalizione di centro-destra. Quali indicazioni utili può trarre il suo partito dal voto tedesco?

Un risultato di questo tipo deve far riflettere tutte le sinistre europee, anche se ciascuna ha i suoi problemi e le sue peculiarità. Mi sembra che il punto vero stia nel fatto che in questa “era della crisi” le sinistre danno risposte che sembrano meno convincenti rispetto alle destre. In secondo luogo l’elettorato di sinistra punisce più pesantemente i propri partiti quando ritiene che essi abbiano sbagliato. È singolare che Cdu e Spd abbiano governato insieme, ma che siano stati penalizzati in questa misura i socialdemocratici. Questo avviene perché c’è un rapporto diverso tra gli elettori e i partiti nel centro-destra rispetto a quanto avviene nel centro-sinistra.
Per quanto riguarda il Pd, penso che diventi ancora più urgente rimettere a punto una strategia complessiva per affrontare la crisi, ma soprattutto il dopo-crisi, per rimettere in pista l’Italia e favorirne lo sviluppo.



La riflessione sul voto tedesco potrebbe estendersi al sistema elettorale, di cui ciclicamente si torna a discutere anche in Italia. Pensa che il modello tedesco abbia da insegnarci qualcosa?

Guardi, un anno fa avrei detto che il primato lo avevano le riforme costituzionali, oggi mi sento di dire che il primato spetta invece al cambiamento della legge elettorale, che sta rendendo l’Italia un Paese non competitivo e incapace di misurarsi sulle grandi questioni. Il potere è infatti concentrato all’interno di una ristrettissima oligarchia politica, di vario colore, sia ben chiaro. Questa oligarchia sceglie i parlamentari, priva la società della rappresentanza politica e il Parlamento della capacità di rappresentare gli interessi del Paese. Credo che sia inutile andare a caccia di particolari modelli importati da fuori, basterebbe ripristinare la Legge Mattarella, togliendo lo scorporo, cioè il vantaggio dei partiti più piccoli. È un sistema che abbiamo già collaudato, funziona, crea rappresentanza e dà un peso al voto di appartenenza. Questa riforma va fatta subito però, perché la mancanza di rappresentanza politica della società ha portato a un impoverimento ideale e politico preoccupante.



Vede la reale possibilità di giungere a questa riforma in breve tempo?

Le grandi battaglie si fanno partendo dalle minoranze. Questa tesi è minoranza perché è comoda per i detentori del potere politico: garantisce ai leader di nominare uomini e donne leali e fidati. Tutto ciò però ha impoverito il dibattito parlamentare. Sono convinto che i cittadini condivideranno questa battaglia.

In una recente intervista ha dichiarato che il bipolarismo non è in pericolo, mentre il bipartitismo è già finito. Può spiegarci meglio la sua analisi?

Come auspicavo, la sconfitta del referendum ha mostrato che un sistema fondato su due partiti non è cosa gradita al Paese.
Penso che il sistema migliore preveda da un lato il bipolarismo, dall’altro clausole di sbarramento tali da non permettere l’eccessivo condizionamento dei partiti più piccoli. Oggi invece ci stiamo orientando verso un bi-leaderismo imperfetto nel quale due leader, uno di maggioranza e uno di opposizione, comandano un’oligarchia (imperfetto perché i poteri tra i due leader sono diversi). Questa fortissima concentrazione di poteri rende il sistema bi-oligarchico, ma tutto questo non ha niente a che fare con la democrazia ed è il frutto di questo sistema elettorale.

Il Pd da qualche tempo non sembra più alla guida dell’opposizione e non riesce ad avere un ruolo importante nel dibattito politico. Ritiene che sia solo un problema di leadership?

 

 

C’è un assorbimento delle energie del Pd nella campagna congressuale interna, che, per necessità, ha portato il partito a ripiegarsi su se stesso. Il fatto però che il Pd porti 350.000 persone a votare per la scelta di dirigenti politici interni è un’importante forma di democrazia, non tanto quella dell’applauso, quanto quella del voto.
Detto questo, all’interno del partito c’è tuttora una profonda carenza di visione strategica del Paese, e da ciò deriva una scarsa capacità di incidere sulle grandi questioni. Spero che usciti dal congresso, comunque andrà, il nuovo gruppo dirigente si assuma il compito di dare un senso alla propria storia nel Paese e sappia svolgere una funzione storica che nell’ultimo periodo si è appannata, se non del tutto scomparsa.

Franceschini, Bersani e Marino. Gli iscritti e il popolo delle primarie sono chiamati a scegliere. Che visioni del partito e della politica portano i diversi candidati?

Come molti sanno, sostengo la mozione Bersani e denuncio subito la parzialità della mia visione. Non mi pare che Marino si stia occupando del tema di fondo, del tipo di partito che vogliamo costruire, ma con grande capacità si sta preoccupando di altre cose.
Per il resto, da un lato c’è una visione di partito fatta di regole e democrazia, lo schema Bersani; dall’altro lato un partito fluttuante e un po’ nebuloso, fondato su un gruppo di direzione centrale molto forte, mentre tutto il resto rischia di essere uno sgabello elettorale per il leader.
Aver fatto passare nelle varie commissioni un certo tipo di regole per cui il segretario non viene eletto dagli iscritti al partito, ma da chi si considera in quel momento elettore (non si capisce se lo sia, pensi di esserlo, o lo sia stato in passato…) priva il segretario di qualunque rapporto con la base e lo distacca dal partito. A questo proposito, sono rimasto colpito dal fatto che Veltroni si sia dimesso in conferenza stampa e non davanti al partito. In modo molto coerente, da un certo punto di vista, perché non era stato eletto dal partito, ma dai cittadini. Questo però non ha niente a che fare con un’organizzazione politica democratica, capace di incidere sul Paese.
Anche se il Pd stava per orientarsi verso una via di mezzo tra un moderno “partito democratico” e un “partito carismatico” con buona probabilità si andrà verso un partito fatto di regole, nel quale viene riconosciuto agli elettori il diritto di essere consultati davanti a scelte difficili. Penso a temi come l’allungamento dell’età pensionabile, la Ru486 o il Testamento biologico.

Il segretario che uscirà dalle primarie sarà anche il candidato premier? Quali alleanze intavolerà il nuovo Pd?

È naturale che il leader del principale partito dell’opposizione sia anche il candidato alla Presidenza del Consiglio, ma questo non si può imporre agli alleati. Bisogna discutere con gli altri, che accetteranno se non avvertiranno questa leadership come una imposizione. Per quanto riguarda le regionali si vedrà caso per caso, mentre per le nazionali è troppo presto per dirlo.
Sicuramente le alleanze andranno fondate su cosa vuol dire governare e su alcune scelte chiave. Servirà sicuramente un chiarimento con l’Idv, perché un certo modo di fare opposizione non corrisponde ai nostri valori.

In una fase in cui molti partiti sono di tipo “carismatico” lei spera in un Pd che assomigli molto al vecchio “partito tradizionale”? Non le sembra anacronistico?

No, non penso al vecchio partito ideologico tradizionale, ma a un moderno partito democratico con un leader scelto dagli iscritti, capace di consultare gli elettori con referendum sulle grandi scelte, cosa che il partito tradizionale non faceva.
L’altra differenza consiste nel rifiutare un approccio ideologico pre-costituito alla realtà, ma allo stesso tempo avere grandi valori ideali di orientamento.

Lei pensa che basteranno queste procedure interne a risolvere quei contrasti tra le due anime del Pd (ex-Dc ed ex-Pci), che su alcuni temi rischiano di esplodere ciclicamente. Penso al caso di Dorina Bianchi e alla polemica interna al Pd sulla pilloa Ru486?

Metà dei nostri iscritti non vengono dalla Dc o dal Pci, ma da esperienze nuove. Sui temi etici invece secondo me vale questa distinzione: le posizioni di coscienza vanno sempre rispettate, ma quando le posizioni di coscienza si organizzano e costituiscono un gruppo nel partito a quel punto vige il principio di maggioranza.

Quali settori della società civile sentite il dovere di riconquistare?

Occorre conquistare e riconquistare tutti quelli che amano il rischio, che stanno rischiando, che investono su se stessi e corrono il rischio di fare e di perdere. La parte forte, mobile, che può rilanciare l’italia. Un paese dinamico riconosce gli sforzi di quelli che sono dinamici e lo sono i ceti che rischiano.