Nel Popolo delle Libertà sono ancora all’ordine del giorno le posizioni di Gianfranco Fini. La festa milanese del partito è stata l’occasione di un dibattito acceso sulla cittadinanza tra il Presidente della Camera e Giulio Tremonti, a cui hanno fatto seguito le dichiarazioni di Berlusconi. Restano sul tavolo però altri temi importanti. Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, entra nel merito della discussione affrontandoli ad uno ad uno.



Il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha aperto un dibattito nel Pdl sull’idea di ridurre i tempi per concedere la cittadinanza agli stranieri. Molti colleghi di partito hanno espresso le loro perplessità. Pensa che sia una buona proposta?

Mi sembra complicato immaginare di risolvere il problema dell’immigrazione partendo dalle conclusioni e non dalle premesse. Stiamo faticosamente cercando di uscire dall’“emergenza immigrazione”, con tutti i conflitti che ciò comporta in sede europea. Una volta superata l’emergenza sarà possibile riflettere con calma sul percorso complessivo che prevede come tappa finale la cittadinanza. Al momento mi preoccuperei di far funzionare gli strumenti di regolazione dell’immigrazione e anche gli accordi di integrazione, che sono già previsti dalla legge.
In secondo luogo cercherei di uscire dalla logica del mero dato temporale perché, ad esempio, tra un imam fondamentalista in Italia da 20 anni, che pur senza aver commesso dei reati predica violenza dalla sua moschea e una persona che ha completato il percorso di integrazione, anche se è in Italia da meno di dieci anni, mi sentirei di premiare la seconda.

È un dibattito prematuro quindi secondo lei?

Il dibattito aperto da Fini può essere positivo se apre uno squarcio su tutto ciò che implica la cittadinanza, ma non penso che la priorità stia nella riduzione dei famosi 10 anni per ottenerla. Una cosa da fare subito invece è l’abbassamento dei tempi che intercorrono tra la domanda e il suo accoglimento. Eliminiamo le lungaggini burocratiche e i passaggi obbligati, che in Italia possono anche durare 4 anni, senza motivo.

Questo tema rappresenta però anche l’ultimo degli “strappi” di Gianfranco Fini dalla linea del Pdl e molti giornali hanno sottolineato il distacco palpabile alla festa del partito tra Fini e la base. Lei crede, come dicono alcuni giornali, che l’ex leader di An si stia muovendo già in un’ottica post-berlusconiana?

Guardi, non ci troviamo davanti a uno scenario in cui il Generalissimo Franco sta esalando i suoi ultimi respiri e Juan Carlos e lì ad aspettare. Siamo in un contesto molto diverso, nel quale mi sembra intempestivo parlare di successione.
C’è sicuramente una diversa impostazione tra Berlusconi e Fini sulla biopolitica, la disciplina del fine vita e altri temi come l’organizzazione del partito o il rapporto tra governo e Parlamento. Penso che Fini comunque abbia preso atto e sia soddisfatto dell’impostazione di Berlusconi, che vede un orientamento prevalente chiaro e la libertà dei singoli parlamentari sui temi più delicati.

Il famoso incontro tra Fini e Berlusconi ha quindi segnato una tregua vera?

A quell’incontro, com’è noto, non c’ero. Quello che so è che non ci sono due contendenti che devono fare la pace, ma due linee che non sono perfettamente coincidenti (e non si scopre adesso).
Io non condivido le idee di Fini su alcuni temi, come ad esempio la biopolitica, ma devo riconoscergli una chiarezza e una coerenza. Nel discorso al Congresso di fondazione del Popolo delle Libertà, disse chiaramente che, pur di sostenere queste posizioni nel Pdl, accettava di essere in minoranza.

Un dibattito interno ai moderni partiti è quindi un dato fisiologico?

Un grande partito (come lo sono il Partito Democratico e quello Repubblicano in America) può avere posizioni diverse su temi importanti. Feci in passato un viaggio all’interno del Partito Repubblicano americano: convivevano ad esempio i pro-life (oggi prevalenti) e i pro-choice, quelli che difendono la famiglia naturale fondata sul matrimonio e i gay organizzati che puntano a ottenere riconoscimenti più ampi, anche all’interno dei repubblicani. Il problema non è che esistano delle divergenze, ma far sì che ciascuna posizione trovi gli ambiti per potersi esprimere, accettando la linea prevalente.

 

 

La stessa cosa riguarda sull’altro versante il Partito Democratico, con la recente polemica scatenatasi al suo interno per la presa di posizione di Dorina Bianchi sulla Pillola Ru486…

Vale lo stesso discorso che facevo prima. Senza voler fare i conti in casa altrui dico che come Fini merita rispetto nel Pdl anche se non si condividono le sue tesi e sono minoritarie, questo dovrebbe valere dall’altra parte per la Bianchi, la Binetti, Bobba e Rutelli. Tutta una componente che semplificando si può far risalire all’esperienza della Democrazia Cristiana può sentirsi sempre più a disagio se casi come quello in merito alla Pillola Ru486 si ripeteranno.

Un tema così delicato da dividere anche persone che come Gasparri e Fini arrivano dalla stessa storia. Aveva ragione Gasparri a chiedere l’intervento del Parlamento su questo tema?

Nello specifico la Ru486 non è un farmaco, ma un composto chimico che sopprime il concepito. Se non valgono considerazioni di diritto naturale, almeno si rispetti la Legge 40 secondo la quale il concepito ha dei diritti. Il Parlamento si giustifica se si occupa di diritti e quindi era pienamente legittimato a intervenire.


Tornando a un punto di vista generale che lega tutti i temi cosiddetti “etici”. In cosa si distingue una posizione realmente laica nel trattare questi argomenti?

Ritengo che un approccio laico a queste tematiche sia indispensabile, a condizione che ci si intenda sulla definizione di “laico”. Il dibattito mediatico attuale è infatti drogato e falsato. Si riduce il dibattito a sole due posizioni possibili: da un lato il laicismo alla Sartori, secondo cui ad esempio la legge sul bio-testamento sarebbe stata orientata direttamente dal Vaticano. Dall’altro lato il fondamentalismo, con la conclusione obbligatoria per cui chi non aderisce alla posizione laicista è automaticamente schierato con la falange fondamentalista.

Quali posizioni vengono tagliate fuori da questa deformazione del dibattito?

Le posizioni sono tre: quella laicista (definita dalla bellissima espressione dell’ultima enciclica di Benedetto XVI: l’“assolutismo della tecnica”, un potere tecnico fine a se stesso per il quale conta solo il know-how), il fondamentalismo, come quello del radicalismo islamico, nel quale i vari ambiti (culturale, religioso e politico) coincidono. E la terza ipotesi che non conosce una separazione radicale tra fede, cultura e politica, ma ne coglie una opportuna divisione: la cosiddetta “laicità positiva” per cui non ci sono dogmi di fede, ma principi di diritto naturale che sono una proiezione della razionalità dell’uomo e in quanto tale riconoscibili da chiunque.
Per affermare l’umanità del concepito non ho infatti bisogno di prendere in mano il Catechismo o il Vangelo, basta andara dall’ecografo e vedere cosa c’è nella pancia di mia moglie o di mia figlia. Se c’è qualcosa che fa le capriole, dà i pugni, ne riconosco gli occhi e le orecchie mi sembra difficile definirlo “qualcosa”, l’evidenza mi dice che è “qualcuno”. Ma è l’evidenza a dirmelo, non il parroco.