Nei giorni in cui si ricorda la figura politica di Bettino Craxi, leader socialista scomparso dieci anni fa, e in cui si torna a discutere di Mani Pulite, termina il lungo percorso giudiziario di Calogero Mannino. La Sesta sezione penale della Cassazione ha assolto l’ex ministro democristiano, oggi deputato Udc, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Mannino venne arrestato nel lontano 13 febbraio 1995, per poi trascorrere 23 mesi in custodia cautelare, tra carcere e arresti domiciliari. Un’esperienza emblematica e diretta del cattivo funzionamento dei processi che, come ci dice lui stesso, «può offrire un contributo a una riflessione pacata, senza alcuna pretesa di rivalsa, sui problemi molto seri della giustizia».



Onorevole Mannino, cosa ha significato per lei questa assoluzione dopo 16 anni di attesa?

È il riconoscimento che mi attendevo fin dal primo momento, la sconfitta cioè di una pretesa accusatoria che non aveva alcun fondamento. Questa certezza mi ha sorretto e mi ha permesso di difendermi da un’accusa che è stata portata avanti sulla base di un preconcetto. Mi auguro che la mia storia possa servire alla riflessione e alle proposte di riforma che mirano realmente al riequilibrio dei poteri.

Sulla base della sua esperienza personale e della sua lunga attività politica, come si può riequilibrare il rapporto tra politica e giustizia?



Questo obiettivo fondamentale passa innanzitutto attraverso il ripristino dell’immunità parlamentare, sia pure disciplinata in maniera diversa dal passato, in modo da evitare gli abusi che in passato ci sono stati, garantendo però la separatezza dei poteri. I problemi sono molti, ma serve un intervento generale e di sistema. Resta ad esempio aperto il problema dei pentiti. È assolutamente assurdo che il pentito abbia una gestione parcellizzata per procura.

Cosa intende?

Serve un ripensamento della disciplina sui pentiti, occorre tornare a quella  ipotizzata da Giovanni Falcone: una centralizzazione della gestione dei collaboratori in grado di assicurare che la dichiarazione di un collaboratore di giustizia non venga mai resa pubblica prima degli accertamenti, delle verifiche e dei riscontri, pena la sua invalidità.

Bisognerebbe ripensare anche al limite temporale entro cui un collaboratore può dichiarare tutto ciò di cui è a conoscenza?



 

Il limite temporale non è da ripensare, ma da applicare, visto che è già stabilito dalla legge, ma non viene rispettato per il semplice motivo che il pentito viene portato a passeggio da una procura all’altra. In questo modo, trascorsi i 6 mesi, il pentito viene spostato e si ricomincia sempre da capo. È evidente che in questo modo non può funzionare.

Prima sottolineava la necessità di un intervento riformatore di sistema. Qual è la sua opinione sulle proposte di cui si è parlato in questi tempi sulla scia dei discorsi sul dialogo e sulle riforme condivise?

Posso anche condividere le singole proposte, come il processo breve o il legittimo impedimento, ma il problema è la disciplina con la quale si opera. Non ha senso stabilire un’immunità ad personam, così come non è pensabile un processo breve al di fuori di una disciplina più organica del processo. Tant’è che il processo breve così come prevede l’attuale disciplina nelle mani dei pubblici ministeri può diventare uno strumento micidiale di condanna. Non si può introdurre questo istituto senza il ripensamento di alcuni articoli del codice di procedura penale, che era stato introdotto per arrivare al processo accusatorio, che in Italia però non c’è ancora.

Come si ridefinisce perciò il pilastro dell’accusa?

Faccio degli esempi: la formulazione del capo d’accusa. Un sostituto può contestare per fatti analoghi l’illecito finanziamento a un cittadino e la corruzione a un altro cittadino. Come ci assicuriamo che fatti analoghi vengano apprezzati, valutati e quindi qualificati nell’azione penale, in modo uniforme? Esiste poi il problema della rivalutazione della funzione del gip, che deve conquistare tutta la sua terzietà per non essere ridotto a un anello della “catena di montaggio”. In alcuni casi purtroppo è così, mentre in altri, alcuni gip e alcuni gup dimostrano di avere una capacità autonoma di giudizio. Sulla stessa detenzione, infine, i casi di abuso sono arcinoti.

A livello politico c’è a suo parere lo spazio per giungere, anche sulla base di queste sue valutazioni, a riforme condivise 

Per quanto riguarda il mio partito, l’Udc, ci misureremo sulle proposte in modo costruttivo, senza pregiudiziali. Se il Pdl mette da parte propositi unilaterali, è bene che anche il Pd faccia le opportune riflessioni.

Hanno fatto scalpore le sue dichiarazioni di qualche giorno fa in cui ha raccontato le preoccupazioni che Falcone aveva prima che iniziasse Tangentopoli, riguardo alla convergenza tra servizi segreti esteri e Cosa Nostra che avrebbero potuto provocare un terremoto politico nel Paese.

In questi anni sono stato soltanto un imputato che si doveva difendere e non aveva senso raccontare questo episodio, su cui tra l’altro non vi è molto da aggiungere. La stagione di Mani Pulite ebbe molte cause e molti “motori”, prese le mosse da esigenze oggettive come la lotta alla corruzione e il contrasto alla criminalità. Purtroppo la sua gestione politica ha portato a un risultato politico: l’azzeramento del partito socialista e di una parte della Dc. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i problemi della giustizia e della corruzione c’erano allora e ci sono anche oggi e la Seconda Repubblica in realtà non è mai nata.