Se Renata Polverini volesse davvero distinguersi da Emma Bonino, non dovrebbe parlare di donne. Un suggerimento apparentemente paradossale, visto il carattere della sfida che si profila per la guida della regione Lazio: il confronto in rosa rischia in effetti di trasformarsi in una sorta di contesa “pariopportunitaria” per chi delle due concorrenti meglio difenda i diritti, meglio rappresenti le aspirazioni, meglio incarni le rivendicazioni femminili, per lo più in campo professionale. Che il terreno dello scontro sarebbe stato questo, del resto, era forse implicito nella scelta stessa delle candidate – entrambe donne, entrambe storicamente impegnate nel sostegno al lavoro femminile, sia pure l’una da sindacalista, l’altra da politica. In questo senso va letto anche l’auspicio che Polverini, la prima delle due ad essere ufficializzata, aveva espresso augurandosi che il suo avversario fosse una donna; o la dichiarazione di Bonino a proposito dello «stesso modo di intendere la politica» delle due, un modo civile e appassionato – sottinteso: femminile.
Ma adoperarsi per le pari opportunità e per le quote rosa non basta per parlare in nome delle donne: il sostegno all’occupazione femminile e la lotta al “soffitto di cristallo” non esauriscono di per sé il novero degli interventi possibili verso le molteplici necessità, esigenze, difficoltà che la componente femminile dell’elettorato esperisce, non foss’altro per la ragione che ogni lavoratrice è, prima di essere tale, una donna, magari una madre, certamente una persona. Polverini ne è cosciente, visto che ha fatto del cosiddetto “quoziente familiare”, e più in generale di politiche sociali calibrate sulla composizione del nucleo familiare una delle sue bandiere. A questo punto, per allontanare definitivamente da sé ogni sospetto di femminismo, potrebbe completare l’opera, almeno in due o tre punti.
Ad esempio, proponendo un piano articolato per la conciliazione tra famiglia e lavoro: che invece di inseguire il mantra degli asili nido – caro tanto alla tradizione emancipazionista quanto a quella sindacalista, ma di per sé insufficiente a rispondere ai reali desideri delle donne lavoratrici – contempli un ventaglio di soluzioni variegate, non necessariamente all’insegna della delega dell’impegno familiare in favore di quello lavorativo. O ancora, traducendo in pratica effettiva a livello regionale la spinta alla flessibilità lavorativa, prevista dalle leggi nazionali a sostegno delle madri lavoratrici, e spesso rimasta lettera morta per via della complessità burocratica, dell’inerzia aziendale, ma anche della diffidenza sindacale.
O infine, dando piena attuazione al principio della libertà di scelta educativa, anche per quanto riguarda la delicata età prescolare. Qui si tratterebbe di istituire un sistema analogo a quello dei “buoni scuola”, che consenta alle famiglie la scelta tra l’affidamento dei neonati a professionisti o agenzie di socializzazione (pagati con il contributo regionale), ma anche l’allevamento domestico a cura dei familiari (che in questo caso tratterrebbero l’assegno per coprire almeno in parte le spese derivanti dai minori introiti).
Il presupposto di un simile meccanismo è quello di intendere la famiglia non solo come unità di fruizione dei servizi sociali, ma anche di offerta dei servizi stessi. È la strada della sussidiarietà, già battuta da un’altra regione, la Lombardia, come segnalato su queste pagine da Luca Pesenti. Una tradizionale (e ormai obsoleta) obiezione vuole che questa strada, a lungo andare, penalizzi la componente femminile del nucleo familiare, “costretta” a restare in casa con i bambini. In realtà, una simile soluzione offrirebbe ai tanti genitori, uomini e donne, desiderosi di occuparsi dei propri figli un’alternativa reale, rispetto alla separazione precoce e prolungata da loro – attualmente una scelta obbligata, a meno di non rassegnare le dimissioni. E smentirebbe una volta per tutte i sospetti di chi vede nell’insistenza di certa politica e di certo sindacato su carriera e emancipazione femminili solo una versione riveduta e corretta dell’oppressione maschilista: ancora una volta a discapito delle donne, e di quello che realmente vogliono.