L’affermazione del repubblicano Scott Brown in Massachusetts, proprio dove dal 1947 il seggio senatoriale era appannaggio dei Kennedy, ha messo in difficoltà Obama, che ha perso la maggioranza qualificata alla Camera alta. Il presidente ha però confermato le riforme in agenda, cominciare dalla riforma sanitaria. Ilsussidiario.net ne ha discusso con Massimo Gaggi, corrispondente da New York del Corriere della Sera.



Come viene letto dentro l’amministrazione questo momento così difficile per la presidenza?

Il partito democratico e la Casa Bianca stanno tentando di fronteggiare il malumore crescente negli americani per la mancanza di azioni incisive verso una crisi economica e occupazionale molto grave. Obama ha ammesso di aver perso il feeling con le opinioni pubbliche nell’ultimo anno perché preso da tutti i provvedimenti di emergenza. Non è un caso che abbia ora ricominciato a percorrere gli Stati Uniti da una parte all’altra per ritrovare un contatto più diretto coi cittadini.



Obama cambierà il suo stile di governo?

Sulla riforma sanitaria ha scelto di trovare un accordo di compromesso coi repubblicani pur di approvare la riforma. Ha dovuto adottare una linea più pragmatica, ma il pragmatismo si accompagna inevitabilmente ad una certa dose di populismo: lo abbiamo visto negli ultimi giorni a proposito della riforma delle banche. L’azione di governo va avanti, ma c’è sempre il timore di non riuscire a portare a casa i provvedimenti. Certo gestire il Congresso diventa ora una cosa molto più difficile.

La riforma sanitaria resta il nodo più controverso. Pensa che Obama abbia chiesto troppo agli americani, proponendo una riforma che i cittadini non intendono pagare?



 

Personalmente ritengo di no. Detto con la lente di un osservatore, penso che i provvedimenti che aveva in mente fossero del tutto giustificati e che anzi abbia fatto troppo poco rispetto a quello che sarebbe necessario. Ma si è scontrato con un’opinione pubblica spaventata e arrabbiata. Il tema comunque appassiona e divide gli americani. Alla vigilia del voto in Massachusetts i sondaggi davano 48 americani su cento a favore e 40 contrari alla riforma. Ma se andiamo a scorporare quel 48 per cento, vediamo che è diviso tra chi dice che la riforma è troppo, e chi dice che è troppo poco.

I timori da dove vengono?

C’è soprattutto spavento, l’idea che comunque è una riforma costosa e che aumenta un debito pubblico che nessuno sa come verrà ripagato. Questi sentimenti vengono enfatizzati da una destra repubblicana fortemente conservatrice che non perde occasione per soffiare sul fuoco. E una tv come Fox le dà sicuramente una mano.

Allo stato attuale quali potranno essere le sorti della riforma?

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Intanto va detto che quella riforma che era stata approvata dalla Camera e poi modificata nuovamente dal Senato è ben poca cosa rispetto all’idea originale di Obama basata sull’assistenza universale. Non copre tutti i cittadini come era stato promesso e ha molti altri limiti. Obama ha detto di voler cercare un compromesso con i repubblicani sulla base di quella versione ulteriormente ridotta, ma le premesse non sono incoraggianti: – sì al dialogo purché si riparta da zero – ha detto McCain.

  

La vittoria di Scott Brown in Massachusetts è un monito delle lobbies?

 

Credo che le lobbies c’entrino poco: il suo obiettivo politico era di abbattere la riforma e lo ha raggiunto. La sua vittoria è piuttosto il punto d’arrivo di una strategia di lungo corso elaborata dalle menti più lucide in casa repubblicana. Nella primavera scorsa, quando Obama invocava uno sforzo bipartisan per risollevare il paese in ginocchio, aveva trovato molti parlamentari repubblicani disposti a dialogare con lui. Questo non è estraneo alla logica del sistema Usa, perché da sempre i voti al Congresso non sono ideologicamente schierati: c’è sempre qualche esponente della maggioranza al quale non vanno bene i provvedimenti del governo e qualcuno dell’opposizione che invece li condivide.

 

Invece cos’è cambiato?

 

Uno stratega come Karl Rove ha capito che per evitare un trionfo totale di Obama, e un ridimensionamento drastico dei repubblicani nella partita, bisognava bloccare subito il presidente sul provvedimento più controverso ed emblematico. Dal punto di vista strettamente politico quest’impostazione ha funzionato perché i repubblicani hanno riconquistato forza e indebolito il fronte democratico. La battaglia per Scott Brown in Massachusetts può essere vista come il passo finale di questa strategia finalizzata a far perdere ad Obama la maggioranza qualificata.

 

Obama ha annunciato di voler mettere limiti alle attività delle banche commerciali e alle dimensioni dei gruppi troppo grandi. Qual è la sua valutazione?

 

 

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Obama si è mosso in ritardo e per molto tempo ha accettato di fare solo interventi tampone, fidandosi di persone che gli hanno garantito una sostanziale continuità col passato. Questo ha significato stabilità ma anche scarsa incisività degli interventi, perché Larry Summers e Tim Geithner hanno gestito l’economia del passato, Summers nel decennio di Clinton e Geithner con il governatore della Fed negli anni di Bush. Le riforme repentine annunciate da Obama sono basate su misure che a mio avviso nella sostanza si possono capire e sono giustificate, ma restano molto difficili da attuare.

 

Perché?

 

Non sarà facile farle passare in Congresso e potrebbero creare molta instabilità, spaccando l’amministrazione Obama al suo interno. Avere un ministro del Tesoro che non è d’accordo col presidente sull’economia non è esattamente la condizione ideale. Inoltre se non si condividono più gli uomini del passato – per esempio –  perché tenersi allora Bernanke alla Fed?

 

Che parte gioca nello scenario il movimento del Tea Party e quali sono le sue prospettive?

 

Per adesso hanno scardinato la politica di Obama e quindi non c’è dubbio che siano un grosso problema soprattutto per il presidente. Ma potrebbero esserlo anche per i repubblicani se spaventano il loro elettorato moderato. Dobbiamo però ancora capire bene il profilo del Tea Party. Ora sono gruppi spontanei di forme non consolidate accomunati solo dal conservatorismo. Ultraliberisti, antistatalisti, molti sono impegnati anche sul fronte etico, in organismi della destra ultrareligiosa. Tra qualche settimana nella convention di Nashville cercheranno di trovare un coordinamento.

 

Ma qual è il loro obiettivo?

 

Sarà importante vedere come si organizzano proprio perché tra loro non c’è chiarezza sull’obiettivo finale, cioè se diventare soprattutto un fattore condizionante per il partito repubblicano o se presentarsi come terza forza. Quel terzo partito che nella politica americana non c’è mai stato.

 

C’è la possibilità che lo scontro su Google metta a rischio i buoni rapporti bilaterali tra Usa e Cina?

 

Il G2 è un dato oggettivo dello scenario futuro ma non è mai stato una luna di miele. Il viaggio di Obama in Cina, che qualcuno ha presentato come il varo del G2, è stato un viaggio contrassegnato da grande freddezza – basti pensare a tutti i no detti dai cinesi alle richieste di Obama sui temi di politica economica e finanziaria e sui diritti umani. Una vera e propria umiliazione. E la contesa su Google mi sembra un’altra pagina allarmante di un rapporto difficile. La vera novità stavolta non è tanto l’aggressiva presa di posizione cinese quanto la dura reazione da parte di Hillary Clinton. Ora la cosa più importante è vedere come si comporterà la Cina col debito pubblico americano.