Non ci sono solo i nuovi politici cattolici nella prolusione di Mons. Bagnasco di lunedì al Consiglio permanete della Cei. Il primo posto e il più importante lo occupa – dice Sandro Magister, vaticanista de L’Espresso – l’incontro degli uomini con Dio, la Chiesa e la salvezza. Ma anche la preoccupazione che cattolici disorientati e senza anticorpi non sappiano opporsi al nuovo radicalismo militante.



Tutti i giornali di ieri hanno messo in primo piano il «sogno» del cardinal Bagnasco di una nuova generazione di politici cattolici. È davvero il centro del suo discorso?

Non sono sorpreso. Da molti anni la prima parte della prolusione del presidente della Cei è sempre dedicata alla Chiesa universale e agli insegnamenti più recenti del magistero del Papa. La seconda parte invece è puntualmente un discorso centrato sull’Italia e sulle questioni aperte più importanti. Ecco perché è quella che viene ripresa più facilmente dagli organi di stampa.



Quali sono secondo lei gli aspetti preminenti nella riflessione di mons. Bagnasco?

Un posto di rilievo lo occupa – e non potrebbe essere diversamente – la questione di Dio riproposta agli uomini contemporanei: il «cortile dei gentili» di Benedetto XVI, uno spazio «dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero». Un luogo cioè dove gli uomini possano dialogare sulle grandi questioni indipendentemente dall’appartenenza o no alla Chiesa.

Bagnasco parla nuovamente di «emergenza educativa».



È la prova che la questione educativa rimane in cima all’agenda della Cei, perché il suo senso profondo è la trasmissione stessa della fede. Ma va intesa nella sua completezza: non riguarda solo la scuola in senso stretto, ma la trasmissione, attraverso i saperi, di una visione del mondo. È un tema che mette in gioco la famiglia, la Chiesa nelle sue articolazioni più popolari, dalla parrocchia alla scuola di catechismo, dalla scuola all’ora di religione, che per la Cei resta un capitolo prioritario. E trascurato.

Lei rileva differenze tra l’impostazione di Bagnasco – compreso l’accento finale dedicato ai politici cattolici – e l’approccio del cardinal Ruini?

Esiterei molto a dire che c’è una differenza di impostazione tra l’uno e l’altro, tra Bagnasco e il Ruini presidente della Conferenza episcopale. Ci sono sì alcune differenze, però non sono immediatamente da ricondurre ad una distanza rispetto alla linea del predecessore, ma dipendono piuttosto dal fatto che la presidenza Bagnasco è ancora in una fase di costruzione. Il contributo del cardinal Ruini è stato quello di un lavoro spesso faticoso, spesso controcorrente e spesso isolato. Quella di rendere sempre più autorevole la Conferenza episcopale è una fatica che ogni suo nuovo presidente «deve» inesorabilmente fare. I tempi cambiano e pongono problemi nuovi.

A che cosa si riferisce esattamente?

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Ad esempio alla polemica accesa soprattutto da Giuliano Ferrara rispetto alla candidatura Bonino nel Lazio. Essa ha messo a nudo effettivamente una certa esitazione e timidezza, da parte della Cei e del giornale che la rappresenta, verso una candidatura che ha una carica simbolica dirompente.

 

E qual è secondo lei il senso di questa «esitazione»?

 

Essa non è di tipo politico ma pastorale. Non deriva cioè da un calcolo politico che – nell’ipotesi di una vittoria della candidata Bonino – occorre in qualche modo fare con la nuova presidente. Non è questo l’essenziale. È una esitazione che a mio giudizio deriva dalla consapevolezza che la gerarchia e la presidenza della Cei hanno di cosa pensa il mondo cattolico in generale.

 

In altri termini?

 

Dalle sensazioni che Ferrara ha raccolto tra i cattolici – dai parroci ai semplici fedeli – in città come Viterbo e Frosinone risulta che il mondo cattolico è disorientato e presenta una preoccupante «metabolizzazione pacifica» di una candidatura come quella di Emma Bonino. E la Chiesa, che è consapevole di questo, non si sente attrezzata per innescare una reazione energica a quella campagna, denunciandone il carattere di sfida anticattolica evidentissima.

 

La Cei è rimasta spiazzata?

 

Il cardinal Bagnasco tiene naturalmente conto di tutto questo anche se guarda più lontano. Perché il suo sogno di una nuova generazione di politici cattolici non dice nulla di formalmente operativo, ma traduce senz’altro una certa delusione per il modo con cui i cattolici impegnati in politica oggi si comportano.

 

Si riferisce a Casini e all’Udc?

 

Mi pare che Bagnasco si collochi in piena continuità con la linea Ruini dell’indipendenza della Chiesa dalle forze partitiche. La Chiesa si muove a tutto campo e non vuole legarsi a nessuno dei partiti, anche se l’uno o l’altro dei partiti hanno etichette cattoliche più o meno esplicite o dichiarate. A mio modo di vedere all’interno di questa indipendenza c’è anche la crescente distanza dalla tentazione di sposare – sia pure con prudenza – ipotesi centriste alla Casini. Questa tentazione era più evidente qualche tempo fa, mentre ora la relazione di Bagnasco non ne mostra alcuna traccia.

 

Mons. Bagnasco auspica l’azione di «italiani e credenti che avvertono la responsabilità davanti a Dio come decisiva per l’agire politico».

 

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È un’ipotesi di lavoro in cui tutto è lasciato alla responsabilità della singola persona. Mentre è proprio l’ipotesi centrista ad essersi dimostrata negli ultimi tempi inaffidabile: quando l’Udc si allea con Mercedes Bresso, anche i vescovi meglio disposti inarcano le sopracciglia. Bresso non ha posizioni molto diverse nella sostanza da quelle della Bonino e non ha temuto qualche tempo fa di chiamare «ayatollah» l’arcivescovo di Torino. E questo la Chiesa se lo ricorda.

 

Ancora una volta il cardinale Bagnasco ha messo in primo piano, prima della politica, la comunità nazionale, dicendo che serve una «riforma urgente del nostro sentirci nazione». Per i laicisti la Chiesa non remava contro l’Italia?

 

La difesa dell’Italia come nazione è presente nei discorsi della Cei da almeno quindici anni. Pensiamo a Giovanni Paolo II e alla Preghiera per l’Italia del 1994. A quell’epoca veniva letta come un bilanciamento delle spinte particolaristiche della Lega, in realtà c’è molto di più: la convinzione che l’Italia – a differenza di altri paesi europei – ha ancora una Chiesa di popolo, e che questo non è un fattore disgregante ma unificante.

 

I temi delicati della Ru486 e dei cosiddetti registri del fine vita arrivano alla fine di un richiamo al magistero di Benedetto XVI su ambiente e sviluppo. Un favore agli ambientalisti?

 

Al contrario, li mette all’angolo. Perché non basta parlare di ambiente per essere dalla sua parte. A Benedetto XVI sta particolarmente a cuore il nesso strettissimo tra l’ecologia dell’uomo e l’ecologia della natura. Esse non possono venire contrapposte, perché non si dà una vera custodia del creato se non si comincia a custodire l’uomo come fatto a immagine di Dio, e con l’affidamento del creato stesso agli esseri umani. In questo modo la Cei abbraccia un insegnamento del Papa che tocca un nervo scoperto di molto cattolicesimo: quello che dà la priorità alla carità sulla verità, e che antepone la pace e il soccorso dei poveri alla fede.