Primo, archiviare la stagione dell’odio. Secondo, metter mano alle riforme, naturalmente condivise. A metterla così, solo degli irresponsabili , o dei De Magistris, o quanto meno dei Brunetta, possono non essere d’accordo. E io sono d’accordo, d’accordissimo, ci mancherebbe. Ma temo che la situazione sia un tantino più complicata. Non tanto da farci dimettere l’ottimismo della volontà. Ma abbastanza da indurci a non far cadere il pessimismo della ragione.



Ho i miei dubbi, per cominciare, che il Paese covi, e spesso sprigioni, un odio paragonabile, come pretendono alcuni, a quello che insanguinò gli anni Settanta. Come tutti o quasi i parallelismi storici (ma sarebbe più giusto dire: giornalistici) anche questo non sta letteralmente in piedi, se non per via del fatto che, oggi come allora, molti ritengono che l’unica soluzione possibile dei contrasti non consista in un ragionevole e onorevole compromesso, ma nella distruzione dell’avversario, o meglio del Nemico. Questo deprecabilissimo atteggiamento, però, che ha i suoi teorici, i suoi imbonitori e i suoi adepti (numerosi) tanto nella maggioranza quanto nell’opposizione, non produce né terrorismo né violenza diffusa, come avveniva negli anni di piombo, quanto piuttosto un clima gratuitamente rovente, e nello stesso tempo un po’ surreale.



Non mi succede troppo spesso di essere d’accordo con Giuliano Ferrara, ma trovo azzeccatissima la sua provocatoria definizione di quello che stiamo vivendo: una parodia di guerra civile combattuta a colpi di souvenir. Stiamo attenti, però: già all’inizio degli anni Novanta Norberto Bobbio ci ricordava che la nostra storia generalmente si dipana seguendo i canovacci della commedia dell’arte, ma all’improvviso, e senza che nessuno si renda esattamente conto di quanto sta capitando, trascolora in tragedia. È quel che è capitato, per restare ai tempi più recenti, con il tracollo della Prima Repubblica. È quello che, quasi vent’anni dopo, potrebbe capitare, in forme inedite, adesso. Pagammo allora, tutti insieme e con interessi paurosi, i costi dell’incapacità di autoriformarsi di una democrazia bloccata dall’assenza di alternative credibili. Potremmo pagare oggi o domani, tutti insieme e con interessi ancora più terrificanti, i costi del fallimento di un bipolarismo artificioso cui non sono bastati quindici anni e passa per liberarsi dal carattere assieme posticcio e selvatico che ha assunto sin dai suoi primi passi.



 

Il paragone più gettonato, a proposito di odio, è quello, secondo me abbastanza calzante, con le contrapposte curve di uno stadio, magari in occasione di un derby. L’inimicizia assoluta che ciascuna nutre nei confronti dell’altra è fuori discussione, le origini e la natura di questa inimicizia (lasciatevelo dire da uno che allo stadio ci va decoubertianamente a una bella festa dello sport) sono invece molto, molto più vaghe, così vaghe che gli altri, più temperati spettatori a un simile, prolungato gioco di guerra guardano con crescente indifferenza e fastidio, e anzi smettono di frequentare gli stadi perché cominciano a non sopportarlo più.

 

In parte, ma solo in parte, le cose stanno così anche in politica. È probabile, infatti, e qualche testimonianza in proposito viene pure da alcuni sondaggi, che sia in aumento il numero degli italiani poco propensi a partecipare, per dirla con Ferrara, alla parodia di guerra civile in corso; e disponibili, quindi, ad ascoltare con interesse e attenzione le ragioni di chi si provasse a rovesciare l’ordine del giorno e la gerarchia dei problemi. Ma è certo che nessuno si è sin qui provato realisticamente a farlo, probabilmente anche nella convinzione che il tentativo sarebbe comunque destinato al fallimento, anche perché i tifosi (e i capitifosi), dall’una e dall’altra parte, conoscono un gioco solo, questo, e sono tuttora abbastanza forti da mettere in scacco ogni tentativo di cambiarne regole e, se occorre, protagonisti.

 

Ora, si dà il caso che le riforme, se riforme sono, proprio a questo dovrebbero servire: a cambiare le regole così in profondità da gettare le basi di un gioco molto diverso da quello cui abbiamo assistito in questi anni o, per uscir di metafora, di una democrazia dell’alternanza finalmente matura, la cui posta siano il governo e prima ancora l’effettiva governabilità del Paese, non la rovina del nemico. È evidente, almeno a mio giudizio, che riforme siffatte non possono che essere condivise da uno schieramento il più ampio possibile. Ma ancora più evidente è che un simile schieramento può essere costruito solo sulla base di una profonda convinzione comune che è ora di cambiare risolutamente strada, perché le vie percorse nell’ultimo quindicennio non portano da nessuna parte. È lecito nutrire più di un dubbio sul fatto che una simile convinzione esista davvero, e che in campo ci siano forze consapevoli e determinate a sufficienza da imporle davvero. Quindi, il timore dell’ennesima, falsa partenza è legittimo. E legittima è anche la preoccupazione, perché il Paese difficilmente potrebbe sopportarla.