Sia Fini che Napolitano – durante la cerimonia in memoria di Enrico De Nicola, nel cinquantenario della sua scomparsa – hanno evidenziato l’esigenza di una rinnovata coesione nazionale. Si tratta di un invito che fa eco a quello fatto dallo stesso Presidente Napolitano durante il suo discorso di fine anno in occasione del quale aveva già avuto modo di ribadire la necessità di «perseverare nell’impegno per una maggiore unità della nazione», requisito essenziale per avviare quelle riforme economiche, sociali ed istituzionali che «non possono essere ancora tenute in sospeso, perché da esse dipende un più efficace funzionamento dello Stato al servizio dei cittadini e dello sviluppo del Paese».
Gli ultimi mesi dell’anno appena trascorso sono stati certamente incandescenti da un punto di vista politico. Tuttavia, fatte salve pochissime eccezioni, i temi dell’agenda politica affrontati sono apparsi troppo lontani dai veri problemi del Paese e, soprattutto, poco orientati verso il bene comune. In particolare, sul piano delle riforme è mancato (e sembra ancora mancare, nonostante i buoni propositi) una vera condivisione dei valori di fondo alla base di una sana democrazia. A partire da quella consapevolezza, richiamata anche da Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, che «lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro».
Dopo l’ormai nota bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale, si sono susseguiti attacchi violenti al testo costituzionale e, in definitiva, a quel sistema di pesi e contrappesi in esso delineato. Un sistema, peraltro, già soggetto a numerose e a volte non condivisibili distorsioni che ne hanno in parte snaturato il senso. Sarebbe sin troppo semplice ricordare le continue frizioni, specie in relazione all’esercizio della funzione legislativa, tra Governo e Parlamento o l’incapacità di quest’ultimo a svolgere una vera e rigorosa attività di indirizzo politico nei confronti dell’esecutivo. L’impressione è che si voglia sempre più ridefinire in via di fatto un sistema democratico che, con i suoi limiti e i suoi pregi, ha garantito all’Italia quel futuro in cui oggi viviamo.
Il che, tuttavia, non deve essere frainteso o scambiato per una strenua difesa dello status quo costituzionale. Bensì, come un appello rivolto a tutte le forze democratiche per una maggiore consapevolezza della necessità – ineliminabile in una democrazia matura – di un chiaro, efficace e moderno sistema di regole istituzionali capace di garantire quella necessaria “collaborazione della famiglia umana” auspicata da Benedetto XVI. Ciò si traduce, in primo luogo, nella ricerca di quegli accorgimenti istituzionali capaci di far sì che le decisioni pubbliche (necessariamente percepite come eteronome rispetto a quelle espressione dell’autonomia privata) siano assunte dalla maggioranza politica senza che ciò possa integrare una “dittatura della maggioranza” come l’avrebbe definita Alexis de Tocqueville. E, in secondo luogo, nella costruzione di un sereno clima di legittimazione politica all’interno del quale ciascuna forza sia chiamata a confrontarsi sulle questioni del Paese con più progettualità e meno calcolo politico.
Questa – seppur in un contesto fortunatamente molto diverso – altro non è che la medesima grande sfida brillantemente vinta dai nostri padri costituenti. Essi, infatti, raggiunsero l’ambizioso obiettivo di costruire una democrazia moderna in un Paese diviso attraverso l’accettazione, da parte delle maggiori forze politiche, di una sorta di accordo tacito che portò, fin dalle prime fasi del lavoro della Costituente, a distinguere nettamente le questioni costituzionali da quelle di politica contingente. Quest’accordo tacito che maturò sui banchi della Costituente portò, così, a distinguere la prospettiva storica entro cui la nuova Costituzione andava collocata dalla prospettiva più strettamente politica, legata alle contingenze dei problemi della ricostruzione.
Una distinzione questa che portò alla definizione di un assetto costituzionale come prodotto di un “patto di lunga durata”, costruito più per le generazioni future che per le presenti. Una costituzione, cioè, improntata ad una visione “alta” dei principi, dei valori e delle regole su cui la nuova democrazia repubblicana doveva essere fondata. Una lezione che ancor oggi dovrebbe farci riflettere e ispirarci.
Come sempre, però, le istituzioni e la politica possono fare molto ma non tutto perché i processi politici devono necessariamente partire dal basso. Non a caso, nel dopoguerra, fu decisivo il contributo offerto dai corpi sociali intermedi e dalla Chiesa a favore della ricostruzione.
Per questo, nel processo di revisione delle regole di funzionamento della nostra democrazia e di modifica dell’attuale quadro politico (stagnante e spesso privo di vere eccellenze) la società civile può svolgere un ruolo importante. È in questo senso che deve essere letto l’appello fatto più di un anno fa da Benedetto XVI a favore dell’emersione di «una nuova generazione di politici cattolici, che abbiano rigore morale e competenza».
Nel nuovo anno, di fronte alla necessità di ritrovare la coesione sociale e una visione “alta” delle questioni politiche, – raccogliendo l’invito contenuto nella Caritas in Veritate – occorrono uomini rinnovati nello Spirito, cittadini capaci di dar vita e animare istituzioni in grado di perseguire, secondo il metodo sussidiario e l’esercizio costante delle virtù, quel bene di tutti e di ciascuno che è il bene comune.