Il governo ha dato buona prova, la fiducia delle Camere è tra le più ampie della storia repubblicana, eppure abbiamo assistito a un “harakiri” collettivo. La legislatura affonda perché è fallito il presupposto che era stato alla base della sua nascita: la prospettiva del bipartitismo su cui avevano puntato sia Berlusconi sia Veltroni. In realtà essi stessi lo hanno minato in partenza non avendo avuto la forza di procedere con coerenza e lasciando “licenza di ucciderlo” da un lato a Bossi e dall’altro a Di Pietro.



Sin dall’inizio la Lega e l’Idv si sono avventati sull’alleato per minarne l’egemonia ed aggredendolo elettoralisticamente. La stessa volgarità, aggressività ed estremizzazione di Bossi e Di Pietro non sono gaffes dovute al loro ostentato primitivismo. Il “romani porci” e “lo stupratore di democrazia” sono speculari e rispecchiano il comune disegno di non avere partiti-guida e cioè sono pugni sul tavolo con cui si sottolinea il proprio protagonismo ed il fallimento dell’ambizione bipartitica di Pd e Pdl. Berlusconi e Bersani debbono subirli, fanno finta di niente ed intanto Lega e Idv crescono a loro danno.



La legislatura nata bipartitica è travolta dal fatto che i due principali schieramenti sono tornati ad essere un sistema di coalizioni caratterizzate dall’affannosa ricerca dei miniconsensi: da un lato Mpa, dall’altro Ferrero e Diliberto.

Si tratta ora di vedere se il fallimento del bipartitismo si tradurrà nel ritorno al bipolarismo – “nuova Cdl” e “nuovo Ulivo” – oppure si sono create le condizioni di un “terzo polo” determinante in almeno una delle Camere. In quest’ultimo caso assisteremmo al paradosso di una campagna elettorale con entrambi i leader, del Pd e del Pdl, con il nome sulle schede elettorali candidati come premier e destinati, nella migliore delle ipotesi, a fare il ministro degli Esteri secondo la migliore tradizione democristiana. E’ il segno dell’ingorgo istituzionale a causa del sovrapporsi contraddittorio tra Prima e Seconda Repubblica, tra Costituzione “formale”, “materiale” e “di fatto”.



 

 

La crisi che ha investito i due protagonisti del progetto bipartitico ha uno svolgimento parallelo, ma è radicalmente diversa. Nel Pd la “levata di scudi” nei confronti di Pier Luigi Bersani non ha come protagonista il co-fondatore. Nel Pd siamo di fronte al fenomeno di un progressivo annegamento della componente co-fondatrice, ex popolare-democristiana, che si trova ormai spalmata all’interno dei tre principali raggruppamenti tutti a sostanziale guida postPci-Ds: la maggioranza di D’Alema e Bersani, l’opposizione di Veltroni, la minoranza di Fassino che torna nella maggioranza.

 

E’ significativo che Paolo Gentiloni, a fianco di Walter Veltroni, nel contestare “la trincea socialista” di D’Alema definisca con insistenza il soggetto co-fondatore, la Margherita, come “riformismo liberale” evitando qualsiasi riferimento cattolico o ex democristiano. Anzi l’attacco a Tremonti è mosso da Gentiloni proprio contestando l’“ispirazione cristiana” che egli ravvisa e condanna nella polemica del Ministro dell’Economia contro il “mercatismo”.

 

E’ in questo quadro che si è potuto verificare, senza incontrare alcuna seria resistenza e obiezione, lo spostamento in blocco del Pd a fianco della Cgil nella rottura tra Epifani e gli altri sindacati.

 

Indipendentemente dall’aggressione estremista, alla Festa del Pd Raffaele Bonanni sembrava un ospite ed anche nella difesa dai violenti è stato trattato come un estraneo.

 

Si tratta della terza rottura con una componente riformista della sinistra italiana operata dal vertice postcomunista nel corso del cammino intrapreso a partire dal 1989: prima del riformismo cattolico il postcomunismo aveva già espulso il riformismo comunista ed il riformismo socialista.

 

E’ illuminante in proposito il recente libro “Milano e il suo destino” (edito da Boroli) scritto da Carlo Tognoli con Lodovico Festa in cui quell’esperienza viene rievocata dal punto di vista del riformismo socialista craxiano e del riformismo comunista amendoliano che furono entrambi nel mirino del vertice del Pci poi Pds.

 

 

Né la piattaforma di Veltroni è davvero un’alternativa. Come ha rilevato Luca Ricolfi anche il testo veltroniano non scardina “la linea sostanzialmente frontista di Bersani” in quanto ne condivide la medesima “idea errata, ovvero distorta e tendenziosa della società italiana”.

 

La rottura con riformismo comunista, socialista e cattolico configura l’antiberlusconismo del Pd come l’armatura di un “cavaliere inesistente”.

 

Il pericolo che si delinea è quindi quello di un ricorso alle urne in un quadro politico ancor più frantumato in cui la scelta è tra identità più incerte rispetto al 2008 e dove sia Pd sia Pdl sono ex partiti trasformati in cartelli elettorali.