Ma la politica italiana quanto aiuta la famiglia? Quante risorse, energie e progettualità vi dedica?
La domanda non è peregrina in tempi di convalescenza post crisi economica, specie in un paese dove il welfare pubblico è lacunoso e l’osmosi tra famiglia e impresa, in molti territori a forte connotazione di lavoro autonomo, è fortissima. A La Stampa ce lo siamo chiesti in fase di rendicontazione del midterm del governo Berlusconi.
Ne abbiamo tratto alcune considerazioni credo interessanti. Di «Famiglia» il premier se ne occupa diffusamente nel programma di governo 2008. È dunque lo stesso futuro governo a conferire centralità alla dimensione familiare.
Secondo i calcoli della fondazione David Hume di Luca Ricolfi, elaborati sulle serie storiche dell’Isae, dal 2000 ad oggi la quota di famiglie in difficoltà però è in forte aumento, nonostante le buone intenzioni. Erano il 9,4% all’inizio del millennio, nei primi 9 mesi del 2010 sono salite al 16,2%.
Il trend statistico dimostra che si sta erodendo il grasso accumulato nel trentennio ’60-’80: la nazione più risparmiosa del mondo da qualche lustro lo è di meno, specie nei nuovi nuclei costretti ad appoggiarsi al welfare sostitutivo dei nonni e dei genitori.
In parallelo il Paese cresce molto meno degli altri competitor europei, e le nostre imprese hanno perso per strada 6 punti di produttività in un decennio. Solo una coincidenza?
Certo, gli ammortizzatori sociali messi in campo dal governo quando è scoppiata la crisi hanno impedito l’atterraggio brusco della nostra economia: insieme all’estensione della cassa in deroga alle aziende sotto i 15 addetti, ai sussidi alle famiglie e ai non autosufficienti. Ma l’esecutivo nel bel mezzo della tempesta non ha avuto il coraggio di mettere mano alla riforma degli ammortizzatori sociali per recuperare risorse immobilizzate dal debito pubblico.
Il ministro Tremonti è stato categorico: niente riforme nella crisi, ne va della coesione sociale. Concentrare quei pochi fondi sulla cassa integrazione ha permesso così di salvaguardare nell’emergenza i redditi dei capofamiglia. Ma passata la buriana, nel primo semestre 2010 la quota di famiglie in difficoltà è tornata a salire. Lo dimostra l’andamento dell’occupazione (al 2° trimestre 2010 sul pari periodo 2008 il tasso è sceso di 5,5 punti) e della disoccupazione (+4,4%), che segnano un deterioramento dei redditi e dei consumi (-2% nel 2009) delle famiglie.
Nel frattempo sui mercati extra Ue si riaffaccia la ripresa. Ma per acchiapparla ci vorrebbero le riforme di struttura. Senza, l’Italia rimane un paese dalla crescita a singhiozzo.
Non a caso tra le promesse inevase di questo midterm ci sono alcune policy che avrebbero potuto dare ossigeno alle famiglie: la pressione fiscale nel 2009 sul 2008 è addirittura cresciuta dal 42,9% al 43,2% del Pil; le pensioni minime non sono state alzate; la detassazione delle tredicesime non è stata varata; il piano casa è rimasto inapplicato ma soprattutto c’è stato il rinvio del quoziente famigliare, che consentirebbe di dividere il reddito per il numero dei componenti al posto di applicarsi all’insieme degli utili e dei redditi dei membri dell’intera famiglia fiscale.
Anche negli anni passati si era parlato di questa misura che a regime porterebbe risparmi per 11 milioni di famiglie. Il problema è che il premier lo sta usando come esca politica per riportare in coalizione Pier Ferdinando Casini, inoltre la sua applicazione è parecchio onerosa sul breve: solo di minor gettito da imposte dirette si perderebbero 3 miliardi l’anno.
Il contraltare alla lunga è che ogni famiglia avrebbe più reddito netto, spingendo i consumi e quindi l’Iva. Una ricetta di cui il paese ha bisogno come il pane. Volendo, c’è davanti metà mandato, per recuperare l’insufficienza.