L’editoriale di Giorgio Vittadini pone dei problemi reali, non inventati. In buona sostanza Vittadini si chiede se Berlusconi e il suo governo vogliono veramente la rivoluzione liberale annunciata oppure no. Si chiede anche se ne siano in grado.
Occorre, secondo noi, riflettere su un dato: se non ci fosse stato Berlusconi, in Italia, chi avrebbe inserito nel dibattito politico, la prospettiva liberale non come una cultura politica residuale, ma come la cultura politica attorno alla quale far ruotare il dibattito politico?
Ci ricordiamo tutti che prima del ’94 di liberalismo ne parlavano alcuni intellettuali isolati ed emarginati? Ci ricordiamo che parlare di liberalismo nel dibattito politico fino al ’93 sembrava una questione di circoli intellettuali inglesi e che quindi si poteva attuare solo intorno alle 17 del pomeriggio, cioè solo all’ora del thé?
Nessuno può disconoscere questo ruolo fondamentale che Berlusconi ha avuto di “sdoganare” il verbo liberale in Italia e di introdurlo nel dibattito politico come tema dominante.
Chi non ricorda un ispirato D’Alema che anni fa in visita alla city londinese sostenne che ormai non potevamo tutti non dirci liberali?
Si tramanda che Antonio Martino in un aeroporto di Roma incontrando Sergio Ricossa e venendo a sapere che avrebbero dovuto prendere l’unico volo disse al collega torinese che sarebbe stato meglio che fossero partiti a due orari diversi perché, nel caso in cui l’aereo fosse precipitato, sarebbero morti gli unici due liberisti italiani. L’apologo martiniano rappresenta bene la situazione che ha caratterizzato l’Italia per lunghi decenni.
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Tutto questo ragionamento non assolve il governo per ciò che non ha fatto nel senso di marcia della rivoluzione liberale e qui ha ragione da vendere Vittadini poco si è approfondita la teoria pensando di avere già tutto chiaro. Troppo ci si è affidati all’intuizione di singole soggettività, anche geniali come nel caso del Professor Giulio Tremonti, che non danno vita ad una scuola, ad un filone di pensiero, ad una cultura politica che non si aggiorna come invece stanno facendo i conservatori inglesi guidati da David Cameron.
Le fondazioni del centrodestra sono diventate l’equivalente delle correnti democristiane: poca elaborazione, tanta chiacchiera, tanta spartizione.
C’è ancora tempo? Poco, ma ci sarebbe. Usiamo il condizionale perché non sappiamo cosa il Premier in primis e tutti gli altri in secundis vogliano fare. Certo non lasciano ben sperare alcune delle figure di riferimento del Pdl. Sembra che siano interessate all’elaborazione politica e culturale quanto un anoressico è interessato al cibo.
Quello che c’è di buono è che il Cavaliere dicono non ne possa più di molti di coloro che lo circondano e che sono i suoi “consiglieri”. Speriamo sia vero altrimenti per la rivoluzione liberale il buon Vittadini, nella sua attesa, si farà canuto.