Ieri sera Gianfranco Fini è sbarcato a Milano per la “trasferta” (come l’aveva definita lo stesso Presidente della Camera) nella roccaforte dell’asse Berlusconi-Bossi. Una tappa attesa quella al Teatro Derby, a pochi passi dalla “piazza del predellino” che diede vita al Pdl, per lanciare definitivamente Futuro e Libertà in una campagna elettorale che, nei fatti, sembra essere già iniziata. 



Nonostante il passo indietro di ieri sul tema della giustizia, il leader dei futuristi sembra aver perso il tifo appassionato dell’opposizione e le quotazioni di un ipotetico governo d’“emergenza democratica” sono decisamente in calo. «I riferimenti storici e valoriali, gli uomini e le tradizioni di Fini restano del tutto alternativi a quelli dei fondatori del Partito Democratico – dice Beppe Fioroni a IlSussidiario.net -. La politica si fonda sui valori e sugli ideali, sulla passione e sul sentimento. Per questo, un’alleanza con Fini non sarà mai possibile, nemmeno per difendere la Costituzione, che, non a caso, è fondata sull’antifascismo e sulla resistenza. Non possiamo far credere agli italiani che i valori siano una variabile declinabile ai nostri opportunismi. Mirabello non si concilia con Marzabotto».

L’alleanza a “due cerchi” proposta a suo tempo da Bersani non è quindi più percorribile?



Sono medico e con le formule geometriche ho poca dimestichezza… Il fatto è che il Pd ha un’altra priorità: recuperare credibilità agli occhi degli italiani dopo la brutta figura dell’Unione. Questo però è possibile solo se si rilancia il progetto di un grande partito di centrosinistra riformatore e innovativo, capace di rappresentare la complessità della società italiana e non solo una delle sue classi sociali. Un partito che ritenga la pluralità di voci interne un elemento essenziale della propria dialettica.

Quello della democrazia interna è un problema ancora aperto?

Quando sento parlare del confronto e della pluralità delle posizioni come di una minaccia all’unità del partito significa che ci stiamo ammalando di “berlusconite”, l’idea su cui si basa la democrazia plebiscitaria secondo la quale uno solo decide e gli altri sono invitati ad applaudire. La democrazia interna ai partiti, a mio parere, rimane una delle carenze più gravi del sistema, come tra l’altro è stato sottolineato durante la Settimana sociale dei cattolici.

Il “documento dei 75” era un invito in questo senso? Lo riproporrebbe o, come dice qualche suo collega di partito, ha fatto più danni del dovuto?



Guardi, io non posso sostituirmi agli occhi di chi non vuol vedere. Se non lo avessimo fatto e se non mi battessi quotidianamente per una presenza di moderati e cattolici nel Pd i tanti abbandoni che si registrano andrebbero centuplicati.
Nonostante le battute dei maligni, il mio non è lo sforzo di chi vuole andarsene, ma di chi prova a trattenere e attrarre moderati all’interno del partito. Dal passato bisognerebbe imparare a uccidere il vitello grasso quando un amico ritorna e non a festeggiare quando qualcuno se ne va. O il gruppo dirigente comprende questa battaglia o il progetto muore.

Cosa pensa invece delle ipotesi di un terzo polo e di chi continua a parlare di un “Papa straniero” per il centrosinistra, che sia Montezemolo, Profumo o Saviano…

Se si parla di “Papa straniero” si scomoda in maniera impropria lo Spirito Santo, di cui non possiamo dire di essere illuminati.
Il Terzo polo, invece, è un esercizio della fantasia. In politica si compete per vincere e governano i primi, i terzi come nascita e come risultato elettorale non vanno lontano. Per questo bisognerebbe smetterla di inseguire i sogni e provare a costruire un polo vincente di alternativa a Berlusconi.

Riguardo alle alleanze lei ha dichiarato di voler evitare lo “scivolamento a sinistra”, mentre poco fa ha chiuso la porta a Fini. Ma è davvero possibile un’alleanza di governo da Vendola a Casini?

Se il Pd diventa riformatore e moderato può far sentire a casa propria tutti quei moderati che non voteranno più Berlusconi. L’alleanza (e la competizione per il voto moderato) con Casini e Rutelli a quel punto sarebbe l’esito naturale.
Per quanto riguarda Vendola: ha una tradizione di governo, ma certamente serve una verifica più stretta sul programma. Lo stesso vale poi per Di Pietro. Il leader dell’Idv, sfidato da Grillo sul terreno del populismo, pur di curare il proprio orticello è sempre stato pronto a far perdere una messe di consensi a tutto lo schieramento dell’alternativa. È la logica miope del “solista fuori squadra” che non ha a cuore il bene del Paese.

È d’accordo perciò con Chiamparino: le alleanze si costruiscono solo su un programma preciso?

Certo, penso di essere stato uno dei primi a dirlo, ma è un nodo da sciogliere al più presto, come si è visto anche in occasione della manifestazione della Fiom.

Qual è il suo giudizio in proposito?

Sono convinto che l’autonomia dei corpi intermedi e del sindacato sia un valore. Se un partito prova a mettere il cappello sulle lotte sindacali dimostra una concezione secondo la quale quando si è al governo i sindacati devono applaudire, mentre quando si è all’opposizione si sfila insieme. Spero che, in occasione dello sciopero generale, giusto o sbagliato che sia, il Pd non senta il “richiamo della foresta”.

La divisione tra Cisl e Cgil, che si riflette nel Pd, autorizza a chiedersi quale sia la posizione del Partito Democratico su Pomigliano…

Come le dicevo, se finisce il richiamo della piazza e si mette fine alla logica della “cinghia di trasmissione” si potranno stabilire nuove frontiere nel rapporto tra globalizzazione e mercato del lavoro. Il primo diritto del lavoro, infatti, è che il lavoro ci sia. Per questo la sfida che parte da Pomigliano va affrontata con la capacità di attrarre investimenti.

Cosa intende?

Se chi investe chiede nuovi sacrifici all’operaio la nuova frontiera del diritto impone che le organizzazioni sindacali siano in grado di controllare gli indirizzi dell’azienda e di essere compartecipi degli utili.
Non è più possibile sostenere che il diritto sacro del lavoratore sia in antitesi con l’innovazione delle frontiere del diritto del lavoro. Sarebbe un regalo alla conservazione, che mira a mantenere lo status quo, ma solo di chi sta già bene.

(Carlo Melato)