“La fiducia ottenuta in Parlamento da Silvio Berlusconi – ha scritto Giorgio Vittadini nel suo editoriale del sussidiario di ieri – ha riattualizzato l’eterna domanda che accompagna i governi a matrice berlusconiana: il premier e il governo vorranno attuare il programma per cui sono stati eletti?”. Lo abbiamo chiesto ad Angelo Panebianco, politologo ed editorialista del Corriere.
«Si tratta di una difficoltà cronica – risponde Panebianco -. E per molti motivi: uno di questi è senz’altro legato alla soggettività di Berlusconi, cioè al modo in cui il presidente del Consiglio fa politica. Un altro è dato dall’incoerenza tra messaggio e strumento politico, cioè tra la proposta politica – che si presenta come dirompente rispetto agli equilibri esistenti – e le forze su cui Berlusconi deve contare, che sono più tradizionali e che alla lunga danno prova di non essere compatibili con l’attuazione di quei programmi. È un’incoerenza all’origine che segna tutta la politica di Berlusconi dal ’94 ad oggi. Poi c’è un aspetto che riguarda il sistema istituzionale».
Sul federalismo però la maggioranza sta lavorando e Berlusconi lo ha messo nei cinque punti.
«Non parlo di quello, ma di un assetto istituzionale ampiamente fondato sulla moltiplicazione dei poteri di veto: è il sistema che ha consentito alla Prima repubblica di sopravvivere nonostante la presenza del Pci e che nella Seconda repubblica non è risultato scalfito».
Si spieghi.
«Se una Margaret Thatcher controlla il partito conservatore, il programma è in grado di attuarlo quasi integralmente perché non ci sono contropoteri che la bloccano. Altra cosa è l’Italia, dove l’esecutivo è istituzionalmente debole rispetto al Parlamento, dotato di mille poteri di veto in grado di inceppare l’azione di governo. In una politica che moltiplica il sistema di veto, politiche coerenti non si possono attuare».
Di sussidiarietà, scrive Vittadini, non se n’è vista molta. Se ne parlava nel libro bianco di Sacconi, ma nel discorso sul quale Berlusconi ha ottenuto la fiducia non c’è traccia.
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«Berlusconi va sempre alla ricerca di una comunicazione efficace. Potrebbe non averla trovata in definizioni e problemi tipici di una ambito complesso che sfugge ai più».
Vittadini nota che il governo ha abolito l’Ici, ma non ha operato sgravi fiscali a vantaggio delle famiglie. Eppure, la promessa di una riduzione fiscale è una delle “armi” che ha permesso a Berlusconi di vincere a più riprese dal ’94 in poi.
«Questo è il punto cruciale. Resta da capire se, in assenza della crisi, Berlusconi sarebbe riuscito. Perché la politica del ministro Tremonti è stata poi un’altra: non quella di ridurre, ma intanto di non aumentare la pressione fiscale. In realtà la politica di Tremonti, come riconosciuto dall’opinione pubblica qualificata e da tutti gli ambienti internazionali, è stata fondamentale per non farci fare la fine della Grecia. Quando è arrivata la crisi era chiarissimo che l’istanza principale, nella maggioranza e nell’opposizione, era quella di “spendere e spandere” per sostenere l’occupazione. Se si fosse fatto, saremmo in guai veramente gravi».
“Le incertezze precedenti (del governo come lo abbiamo visto fino a oggi, ndr) non sono certo casuali. Piuttosto dipendono dall’impreparazione e dalla grave ambiguità culturale di parte della coalizione che, non solo nella componente finiana, è di fatto su posizioni radicali di destra, lontane da uno sguardo realista a ciò che capita nella vita sociale ed economica; dall’indecisione con cui sono condotte battaglie continuamente annunciate”. Lei che dice?
«È vero. Mi lascia però perplesso l’attribuzione di un “radicalismo di destra”. Sarebbe radicale una riduzione drastica delle tasse; non so se di destra o di sinistra, ma certamente molto radicale. Questo implicherebbe una riduzione della spesa pubblica che i moderati della coalizione non hanno in mente di fare. Parlerei piuttosto di una coalizione conservatrice che non è disponibile a seguire i messaggi più radicali con cui Berlusconi ha vinto le elezioni».
La strada per attuare il programma, secondo Vittadini, sarebbe quella di “approfondire la teoria e perseguire la prassi della Big society che si fonda su libertà e sussidiarietà”, attuata in Regioni come la Lombardia e messa da Cameron alla base del suo governo.
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«Attenzione: quella della società che si auto organizza e dello Stato che lascia spazio alle sue espressioni organizzate, è una posizione moderna e avanzata che va bene per Milano, ma che a Reggio Calabria rischia di non “catturare” la realtà, perché nel momento in cui il 60-70 percento dell’occupazione è legato alla spesa pubblica, come accade in certe regioni del sud, stiamo parlando di una società che fuori dallo Stato, letteralmente, non c’è o quasi. Il nostro paese è spaccato tra nord e sud in maniera toppo netta».
Spetta al federalismo tentar di sanare la frattura?
«Sul federalismo il paese si gioca tutto. Se in questa legislatura c’è ancora spazio per farlo – e io non credo – quando ne vedremo i veri contenuti capiremo quale sarà la prospettiva per il futuro. Ma la situazione si è deteriorata al punto che, come sappiamo tutti, probabilmente ci saranno le elezioni a marzo. E questo, allo stato delle cose, fa virtualmente “saltare” tutto».
A quali condizioni le energie virtuose di una società come quella che c’è nel nord del paese possono trainare anche il resto? Sono solo istituzionali o c’è anche qualcos’altro?
«Alla politica spetta il compito di modificare il contesto istituzionale, e non è poco. Poi intervengono molti altri fattori, di ordine culturale, su cui la capacità di incidenza dei governi è bassa o addirittura nulla. La politica non è affatto onnipotente, anche se ogni tanto si illude di esserlo e nei discorsi pubblici a volte sembra che lo sia. Per prima cosa, questo governo dovrebbe adattare alle esigenze il contesto istituzionale, cioè costruire incentivi positivi per comportamenti virtuosi, e negativi per dissuadere da quelli non virtuosi. Però fare questo è molto complicato e il fatto che il federalismo, probabilmente, andrà ad arenarsi mostra quanto sia complessa questa operazione».