Sono giorni in cui accade di tutto. È successo perfino che il Pm presso il Tribunale per i Minori di Milano abbia criticato il ministro dell’Interno per l’informativa resa al Senato sulla vicenda “Ruby”, sino a rivolgersi direttamente al Csm, in quanto nella relativa ricostruzione il secondo si sarebbe fondato su atti ufficiali e non sulla relativa interpretazione. A dire del pubblico ministero l’espressione formalmente impiegata nella relazione esplicativa resa dal medesimo Pm al Procuratore capo (“non ricordo di avere autorizzato l’affidamento”) avrebbe dovuto essere intesa nel suo contrario (“ricordo di non avere autorizzato l’affidamento”); ciò in quanto, come lo stesso ha candidamente affermato in una lunga intervista, si sarebbe trattato di “un errore nella costruzione della frase”. Ha infatti aggiunto: “avrei dovuto scrivere: «ricordo di non avere autorizzato», perché era questo il senso” (Corriere della Sera, 14 novembre 2010). Il tutto, quasi che oramai anche i giudici possano prendere le distanze da quanto formalizzato ufficialmente nei propri atti, sino a colpevolizzare i relativi destinatari di prestare affidamento alle parole ivi impiegate. Eppure – a ben vedere – quel Pm ha potuto godere di un invidiabile trattamento televisivo (addirittura la rubrica di approfondimento domenicale di Rai Tre il primo pomeriggio), innegabilmente escluso a tutti quei giudici che, invece, non commettono “errori nella costruzione delle frasi”!
Di qui, gli inevitabili interrogativi: forse che sia maggiormente conveniente commettere “errori”, battere i piedi e contestare chi si attarda nell’affidamento delle regole istituzionali? Forse che la vera e indicibile cifra dell’interminabile transizione in atto consista, per l’appunto, nella legittimazione materiale del ribaltamento delle condotte istituzionali? In definitiva, forse che il prezzo dell’auspicabile conclusione del presente bipolarismo astioso, inconcludente e sempre meno rappresentativo sia proprio quello di rendere giustificabili quei comportamenti istituzionalmente devianti, purché ritenuti consoni alla “causa”?
Si tratta di interrogativi, che l’attuale crisi politica rende sempre più stridenti. Si consideri la vicenda della creazione del gruppo parlamentare Futuro e libertà promossa dal Presidente della Camera, on. Gianfranco Fini. Pur di giustificare la correttezza del relativo comportamento istituzionale, si è detto che non è d’impedimento alla conservazione della Terza carica dello Stato il fatto che il relativo titolare sia nel frattempo diventato il leader di un gruppo politico in palese e irrimediabile conflitto con il segretario del partito d’originaria appartenenza. Per far ciò, si è fornita una lettura del ruolo del Presidente della Camera sbiadito e sostanzialmente svuotato d’ogni potere; ci si è limitati a dire che il relativo compito è quello di rappresentare la Camera e di dirigerne la discussione, quasi che si tratti di una figura neutra e priva di reale incidenza. E così non si sono ricordati gli straordinari poteri invece riconosciuti allo stesso, come quello di fissazione autonoma dell’ordine del giorno dell’Assemblea in caso di disaccordo nella conferenza dei capigruppo (Regolamento della Camera, art. 23), ovvero quello di concorrere alla nomina di prestigiose cariche istituzionali, quali quelle riguardanti i componenti di alcune autorità indipendenti. Si è così elusa la domanda fondamentale sottesa all’intera vicenda: con quale terzietà potranno mai essere esercitati detti poteri?
Nel medesimo senso, si consideri ancor più quanto verificatosi in occasione del congresso fondativo del movimento di Futuro e libertà, con l’accorato appello del Presidente della Camera al Presidente del Consiglio di rassegnare le dimissioni, pena il ritiro dei “propri” ministri dalla compagine governativa (condotta già attentamente stigmatizzata da Lorenza Violini su queste stesse colonne). Pur di giustificare l’operato del Presidente della Camera si è omesso di ricordare quanto, invece, si lamentava fino alla nausea nella Prima repubblica e quanto si legge con chiarezza in qualsiasi manuale di Diritto costituzionale, ossia che in un regime parlamentare le crisi di governo devono sorgere all’interno e non già all’esterno delle Camere; solamente in tal caso, infatti, le ragioni della crisi possono essere pubbliche e trasparenti, a totale beneficio dei principi della rappresentanza parlamentare e della responsabilità politica. Si è così elusa la domanda fondamentale sottesa all’intera vicenda: quale tutela delle ragioni del parlamentarismo e quale garanzia della Camera dei Deputati ha esercitato nella specie la Terza carica dello Stato, invitando il Presidente del Consiglio a promuovere una crisi extraparlamentare?
Orbene, è nel richiamato contesto di spavaldo ribaltamento materiale dei ruoli istituzionali, che occorre considerare quanto affermato dal Presidente del Consiglio a proposito del fatto che, in caso di sfiducia alla sola Camera, si dovrebbe procedere al suo scioglimento anticipato e non già a quello dell’intero Parlamento, come del resto affermato dalla lettera dell’art. 88 della Costituzione (“Il Presidente della Repubblica può sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”).
Si tratta di una provocazione non facilmente praticabile per ragioni strettamente costituzionali (la norma è stata scritta dal Costituente in una diversa prospettiva mai realizzatasi) e per considerazioni politiche (la relativa attuazione rischierebbe di accentuare la solitudine di un premier rinchiuso nel bunker del Senato e ormai isolato dal resto della società civile).
Eppure, detta provocazione ha finalmente il pregio di fare emergere le contraddizioni del momento. Essendo “astrattamente possibile”, come più studiosi hanno variamente rilevato, l’eventualità di uno scioglimento della sola Camera dei Deputati costringerebbe gli attori politici a contestarne l’applicazione da parte del Presidente della Repubblica; ciò soprattutto al fine di scongiurare l’eventualità sottesa ad una simile applicazione. Occorre ricordare, infatti, che l’attuale regime elettorale (riconosciuto come costituzionalmente “problematico” dalla sent. n. 15/2008 della Corte costituzionale) non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e/o seggi; di talché lo schieramento del Pdl, pur indebolito dai dissidi interni e dalla fuoriuscita dei deputati di Futuro e libertà, potrebbe egualmente risultare vincitore delle elezioni, così riguadagnando quei 340 seggi al momento inesorabilmente persi. Il tutto, con la paradossale conseguenza di vedere la leadership di Silvio Berlusconi ulteriormente rafforzata e non definitivamente affossata. Di qui, in definitiva, la domanda fondamentale: con quale terzietà il Presidente della Camera potrebbe invocare innanzi al Presidente della Repubblica le ragioni dello scioglimento di entrambe le Camere e non solamente di quella “presieduta” da lui?