Ar-core non si comanda, come si sa. Ma da Arcore non si comanda sul Quirinale. Con la consueta capacità di affermare in modo dirompente quanto potrebbe apparire persino ovvio, Giorgio Napolitano ha ribadito che la decisione sullo scioglimento delle Camere, una o due che siano, tocca a lui e a lui solo.

Al momento non è chiaro se Fini sia in grado davvero di far mancare la fiducia alla Camera, tenendo unito il suo gruppo di (36?) deputati. Ma se dovesse davvero riuscirvi gli esegeti del Quirinale ritengono poco probabile che lo sbocco possa essere davvero quello chiesto e auspicato dal premier, ossia lo scioglimento della sola Camera dei Deputati. Intanto perché Berlusconi i buoni rapporti con Napolitano se li è giocati da quel dì: al posto di puntare sul Colle come garante delle riforme e vero puntello della legislatura il Cavaliere è riuscito progressivamente a spazientirlo, con tre mosse una più maldestra dell’altra.



La prima, attaccarlo sul lodo Alfano bocciato dalla Consulta, laddove il Quirinale, in realtà, era parte lesa, avendolo lui stesso promulgato. Due, la tardiva nomina del ministro dello Sviluppo, per giunta ignorando una perplessità riferitagli a viso aperto da Napolitano sul nome di Romani. La terza mossa sbagliata, infine, è stata l’essersi inventato nel frattempo un inutile ministero per la Sussidiarietà, pacchianamente a ridosso della chiamata in giudizio del ministro aspirante Brancher.



Ora, non si può ritenere che Napolitano agisca a dispetto, ma non è nemmeno agevole immaginare (nel caso, ripeto, che venga a mancare la fiducia alla Camera) che possa concedere a Berlusconi, in questo clima, quanto solo due anni e mezzo fa fu negato al centrosinistra a parti invertite. Prodi infatti aveva perso la maggioranza solo al Senato (grazie al mitico Turigliatto) , e non alla Camera, ma si andò comunque allo scioglimento anticipato.

Gli errori di Berlusconi in questi ultimi mesi sono stati davvero molti, e non si capisce fino in fondo se siano dovuti al temperamento schietto e ardimentoso dell’uomo o alla modestia dei consiglieri cui si è affidato, ignorando Gianni Letta. 



Certo, Gianfranco Fini era diventato una spina nel fianco, ma non si passa a sfiduciarlo senza contraddittorio (in un partito che si chiama “della Libertà”) prima di aver conteggiato e neutralizzato gli effetti che tale mossa può originare.

Viene da sorridere oggi ricordando la direzione del Pdl di fine aprile che intendeva umiliare Fini con altisonanti argomenti vagamente maoisti ("Servire il popolo") degni di miglior causa, mentre era ancora il momento di trattare, di depotenziarlo, di addomesticarlo. L’effetto, lo si è visto, è stato invece quello di regalargli, per solidarietà indotta, la formazione di un partito laddove ormai politicamente, Fini, sembrava ormai isolato e inoffensivo.

Non solo: non si va (altro errore) a fare il gioco del pallottoliere in prima persona (come ha fatto Berlusconi nel tentativo di rendere Fini non più decisivo) trattando con Pionati, Nucara o Saverio Romano, senza mettere in conto, in caso di insuccesso, l’irrigidimento non solo di Fini, ma anche di Pier Ferdinando Casini stavolta, irritato per la campagna acquisti ai suoi danni in Sicilia. A quel punto l’appello di Berlusconi in Parlamento a Fli e Udc è parso tardivo e privo di credibilità, e infatti non ha sortito effetti.

La vicenda di Ruby, infine, con il devastante calo di immagine che ne è derivato per il premier, ha contribuito a convincere Fini, con grande cinismo, che poteva essere inferto il colpo decisivo al nemico/alleato il quale non era riuscito nell’intento di annientarlo, si pensi anche alle inchieste del Giornale di famiglia sulla casa di Montecarlo.

Non ci vorremmo qui inserire nella dissertazione sulle ragioni vere, e sui torti, della disputa atavica Berlusconi-Fini arrivata al momento finale, né è facile scommettere sugli sbocchi possibili della stessa. Staremo a vedere.

Solo la sicumera che contraddistingue, citando Eugenio Montale, gli uomini che non si voltano (e se ne vedono tanti in giro) può consentire di vedere certezze che in realtà non vi sono per nessuno, tantomeno per il Paese che versa in grave difficoltà.

Chi prova a far di conto, invece, senza farsi accecare dall’odio tribale, vede all’orizzonte in caso di voto con questo sistema elettorale folle e sghembo, una più che probabile, e spaventosa, paralisi istituzionale con maggioranze di segno diverso fra Camera e Senato, essendo verosimile la vittoria a Montecitorio dell’asse Pdl-Lega (che riporterebbe il 55 per cento dei seggi previsto dal premio di maggioranza) mentre a Palazzo Madama l’apparentamento un po’ forzato fra Fli, Udc e Api consentirebbe a queste tre forze, altrettanto verosimilmente, di superare l’otto per cento in tutte le regioni. 

Conseguendo, così, un numero di senatori tale da negare quasi certamente alla maggioranza relativa di Pdl e Lega di trasformarsi anche al Senato in maggioranza assoluta. Mostra peraltro di essere consapevole di questo scenario lo stesso Berlusconi che si guarda bene, infatti, dal chiedere lo scioglimento anche del Senato, dove quella risicata maggioranza che si ritrova ora difficilmente verrebbe confermata in caso di voto anticipato, lo sa anche lui. Ma, come detto, Napolitano difficilmente l’accontenterà.

Con buona pace degli uomini che non si voltano, insomma, restano più timori che certezze. Un governo di centrodestra senza Berlusconi (e guidato da chi?) allargato a Casini e Rutelli appare tanto in alto mare quanto un governo tecnico che faccia a meno di Pdl e Lega, inglobando tutto il resto e qualche transfuga ulteriore.

Nel frattempo però un bilancio, per niente lusinghiero, si potrebbe iniziare a trarlo dalla stagione dell’impegno politico dei cattolici nella cosiddetta Seconda Repubblica, o se volete, nell’era berlusconiana, che alcuni vedono al crepuscolo, mentre altri lavorano attivamente perché tale diventi.

Di fronte al pensiero forte (un po’ ossessivo) della Lega sul federalismo, al cospetto di una priorità assoluta di Berlusconi per la giustizia, altrettanto ossessiva e tragicamente improduttiva di risultati (se non di segno negativo), di fronte ora a un’altra priorità (che sa un po’ di pretesto) da parte di Fini sulla legalità, i cattolici impegnati nel centrodestra quali priorità hanno saputo proporre/imporre all’attenzione? Non parliamo dei consessi cattolici, o di area, o delle professioni di fede indirizzate alla Gerarchia, lì viene più facile. Parliamo invece delle sedi in cui ci si gioca la faccia e anche qualche poltrona e si fanno sul serio le scelte. 

Per la famiglia, a bene vedere si è fatto poco o niente. Per questa ragione a mio avviso (e non per altre ragioni di opportunità legate alla vicenda-Ruby) ha fatto bene Berlusconi a disertare il seminario del Forum delle famiglie, al quale avrebbe avuto poco da raccontare. E dire che ci sarebbe stata una maggioranza ampia (con l’Udc e forse anche il Pd), se solo qualcuno attorno al Cavaliere si fosse impuntato sul quoziente familiare come Bossi ha fatto e fa per il federalismo.

E non si dica che non ci sono soldi: si tratta dopotutto di redistribuire in modo più equo il poco o molto che c’è, come ha chiarito Gianni Alemanno al Meeting. Invece, tanto sulla famiglia, tanto sulla scuola paritaria non si è andati oltre la logica dell’obolo e della contribuzione che viene concessa ogni volta a prezzo di nuove trattative, ma può anche essere tolta in ogni momento.

Pesa inoltre come un macigno, proseguendo nel bilancio di questi anni, la difesa poco coraggiosa fatta a suo tempo di Rocco Buttiglione (con lodevoli eccezioni come quella di Mario Mauro) per la sua mancata nomina a commissario europeo, di fatto dovuta alla sua professione di cattolicità. Una vicenda che, rivista oggi, rende ancor meno credibile e mal posta l’affermazione choc di Berlusconi a favore dell’attrazione femminile, rispetto a quella omosessuale, vista la debole difesa che Buttiglione registrò dal Cavaliere in quella circostanza.

Nessuna nostalgia per l’unità politica dei cattolici, ma è un fatto che niente si è rivelato più facile che dividere le persone che sono, o almeno si dicono, impegnate in politica a partire da una comune adesione alla dottrina sociale alla Chiesa.

Si pensi alle progressive rotture senza dimenticare il tentativo portato avanti dallo stesso presidente della Lombardia di dar vita a una lista personale, poco sostenuto e fatto naufragare con poca lungimiranza, essendo la Lombardia uno dei pochi laboratori “reali” (come di diceva una volta del socialismo) che potevano essere esportabili a Roma.

Non so se sia venuto il momento di una sorta di nuovo Movimento Popolare, certo è che autorevolmente si continua ad auspicare la nascita di una nuova generazione politica di cattolici, ma non se ne vede ancora l’alba. Per dirla tutta, sembra che la fedeltà a Berlusconi, abbia influito più, molto di più. della fedeltà e della sintonia con gli amici, a differenza di quanto accade, ad esempio fra i leghisti: alleati fedeli di Berlusconi, ma guai a provare a dividerli.

Ma a furia di non aver voluto Formigoni a Roma “condannandolo” in Lombardia, di non aver voluto Casini e Buttiglione con il loro simbolo (illudendosi di attirarne i voti con l’ingaggio, nel 2008, di qualche dirigente, salvo, ora, a invocarne tardivamente l’ingresso al governo), di emarginare Pisanu (reo, inconfessabilmente, di non aver assecondato la tesi del golpe elettorale quando era ministro dell’Interno) Berlusconi si è ritrovato Fini, il quale ha occupato le praterie lasciate libere da altri.

Cosicché ora è proprio con Fini, alle prese a dire il vero con un vistoso conflitto d’interesse da Presidente della Camera, che Berlusconi dovrà avere a che fare, e l’apparentamento che ieri è stato rifiutato all’Udc oggi è lui stesso a chiederlo a Casini che però non è più disposto a concederglielo. Acuendo la difficoltà di una situazione dagli sbocchi a dir poco incerti. Per la politica e per il Paese.