Le primarie di Milano hanno provocato un altro terremoto nel Pd. Si sono dimessi i vertici locali, si è dimesso dalla segreteria nazionale Filippo Penati. Le primarie milanesi sono state un campanello d’allarme per Bersani. Ha votato meno gente di altre volte e ha vinto il candidato più radicale.

I veltroniani sono subito partiti all’attacco di Bersani accusando la sua gestione di aver smarrito la vocazione originaria del Pd. Adesso in molti temono un effetto Vendola sia per le primarie di altre città italiane sia per quelle nazionali sulla scelta del leader che sfiderà Berlusconi.



Si ha l’impressione che ci sia un’area del partito che ha la testa rivolta all’indietro, a quella stagione del dialogo fra Veltroni e Berlusconi, il famoso CaW, che è fallita per entrambi. Il Pd si ritrova invece ancora una volta con il dilemma sulla propria identità. C’è nella vittoria di Pisapia l’alba di un vendolismo trionfante? Indubbiamente il governatore pugliese sta macinando molto frumento. Pur non essendo nuovo alla politica ne interpreta i suoi valori più  forti e riscalda i cuori di tanti democratici.



Probabilmente rappresenta anche quella voglia di sinistra che è stata compressa in questi anni e che sta risorgendo. Tuttavia sia il vendolismo sia la vittoria di Pisapia non sono un fenomeno settario. Pisapia, per stranezza italica, è collocato all’estrema sinistra ma in altri paesi sarebbe un liberal. Il Vendola di oggi è assai più duttile della vecchia Rifondazione comunista. Il problema è tutto nel Pd che non riesce a rappresentare questa domanda di sinistra e rischia di essere penalizzato dalla nascita di un polo di centro.
 

Di chi è la colpa? E’ difficile indicare in Bersani il responsabile di questo blocco che impedisce al Pd di salire nei sondaggi. Probabilmente ha ragione Massimo Cacciari quando dice che l’obiettivo iniziale del progetto è stato mancato. E’ lecito pensare che il progetto stesso fosse fragile nella sua impostazione.



Nell’idea iniziale del Pd convivevano due ipotesi apparentemente opposte. L’una pensava che il berlusconismo fosse un fenomeno malsano a cui bisognasse contrapporre una aggregazione larghissima in grado di farsi partito. L’altra che il berlusconismo fosse un fenomeno addomesticabile, e quindi sostanzialmente di lungo periodo, a cui contrapporre  un aggregato moderato di sinistra.

I primi segnali di crisi della leadership di Berlusconi stanno mandando in frantumi questi due approcci. Berlusconi non ha dato vita ad un partito dei moderati, c’è un antiberlusconismo di destra che non può essere assorbito dal Pd. Tocca ora a Bersani confrontarsi con questo mutamento del quadro. E deve farlo minacciato dall’attivismo vendoliano e dai primi vagiti del polo di centro. E’ un impresa molto complicata, come dimostra la vicenda di Milano. Bersani sembra volerla giocare sul terreno che gli è più congeniale. Non gareggiando per il proprio primato, ma lavorando per creare una nuova coalizione. Non ha altra strada.

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