La crisi di governo che sembra avvicinarsi a grandi passi e che sembra destinata a formalizzarsi il prossimo 14 dicembre appare anomala da diversi punti di vista.
La prima anomalia, rispetto al passato, è data dal fatto che uno degli attori istituzionali della crisi – e cioè il Presidente della Camera – è il leader della formazione politica più apertamente interessata all’apertura della crisi stessa. E se si ragiona sul fatto che – secondo l’art. 88 della Costituzione e secondo le prassi consolidate – il Presidente della Repubblica deve sentire i Presidenti di Camera e Senato prima di decidere lo scioglimento anche di una sola di queste, è lecito ritenere che il Presidente della Camera possa – a dir poco – trovarsi in difficoltà a svestire i panni del leader politico per indossare, al momento delle consultazioni, i panni di una figura terza rispetto alle dinamiche politiche di cui è parte.
Detto questo, la seconda anomalia è data dalla richiesta di arrivare allo scioglimento della sola Camera dei deputati nel caso in cui – il prossimo 14 dicembre – il Governo si trovi, in quella sede, senza maggioranza: maggioranza che invece sembra al momento destinata ad essere confermata al Senato. Che lo scioglimento di una sola Camera – stante la lettera dell’art. 88 della Costituzione – sia astrattamente possibile non vuol dire granché.
La possibilità di scioglimento disgiunto dev’essere esaminata alla luce del fatto che è dal 1963 che una legge di revisione costituzionale ha uniformato in cinque anni la durata di Camera e Senato al fine di armonizzarne il funzionamento in un sistema in cui tutto deve ricevere l’approvazione di due assemblee progettate per lavorare in parallelo. Insomma, funzioni identiche; identica durata e necessità di approvare tutto due volte.
Che questo sia oggi – per la rapidità e l’efficienza del sistema parlamentare – un bene o un male è uno dei punti ricorrenti del dibattito sulle riforme non scritte di questi ultimi vent’anni. Io penso che sia un male. Sta di fatto che, piaccia o non piaccia, questo è il sistema che abbiamo. E in questo sistema che le due Camere debbano vivere e morire assieme è semplicemente dovuto al fatto che un Parlamento con maggioranze disgiunte non può fare il suo lavoro, che è poi quello di sfornare leggi e garantire la fiducia al Governo.
Però, se questo è il sistema, è facile capire una cosa. E cioè che il venir meno della fiducia al Governo presso una delle Camere di per sé non significa – e non ha mai significato – che si debba andare ad elezioni della sola Camera contraria all’indirizzo del Governo, come oggi si propone.
Piuttosto ha sempre significato che, venuta meno una maggioranza, o si sciolgono – per le ragioni anzidette – entrambe le Camere e si va elezioni; oppure si cerca in entrambe le Camere un’altra maggioranza (che oggi, a parole, nessuno dice di volere). Tanto è vero che da sempre – e da ultimo nel 2008 – la sfiducia votata presso una Camera comporta l’obbligo di dimissioni del Governo e, eventualmente, nuove elezioni di Camera e Senato.
E allora perché si avanza oggi la proposta dello scioglimento disgiunto? Per il semplice fatto che in Italia oggi non c’è accordo sul funzionamento del sistema istituzionale. E questo non solo e non tanto per interesse delle parti in gioco, ma per il fatto che tra costituzione formale e funzionamento concreto del sistema politico si è venuto formando, in questi anni di transizione infinita, un divario pericoloso, alla cui creazione tutti i soggetti politici hanno collaborato e che ora comincia a mostrarsi nei suoi esiti destabilizzanti. In parole povere il sistema oggi è schizofrenico perché è fatto di due modelli diversi. E infatti, da una parte costituzione formale e prassi praticate dal 1948 ad oggi ci dicono che, mancando la fiducia presso una Camera, il Governo deve rassegnare le dimissioni (e a questo mira l’iniziativa politica del Presidente della Camera/leader politico).
E tuttavia la logica del maggioritario bipolare – cui a parole tutti hanno voluto adeguarsi del 1992 – si fonda sul principio per cui a decidere chi deve governare deve essere l’elettore con il suo voto: un voto da cui deriva il diritto della coalizione vincente a governare per cinque anni. Il che non è scritto nella costituzione formale ma è scritto in una legge elettorale che conferisce alla coalizione vincente (anche di poco) il 55 percento dei seggi alla Camera al fine di consentirle di governare per la durata delle camere.
C’è insomma nella legge elettorale un principio di investitura popolare dell’esecutivo che non sta in Costituzione; che sta nel libro delle riforme annunciate e mai realizzate, ma che nei fatti viene accettato, predicato e praticato da tutti da vent’anni. Ed è su questo principio di investitura popolare che si fonda la richiesta di sciogliere quella sola Camera che risultasse contraria all’indirizzo del Governo: è sulla base di una esigenza di rispetto del risultato elettorale o, se si vuole, della volontà degli elettori (e a questo mira la proposta della Presidenza del Consiglio).
Sicché è facile capire che il dissidio politico è oggi, in realtà, un dissidio sulle regole istituzionali e cioè un dissidio tra la logica del maggioritario (o della democrazia di investitura, di cui più meno tutti si sono giovati in questi anni) e la logica del sistema parlamentare del 1948.
Ma le anomalie non finiscono qui. La cosa divertente (terza anomalia) è che seguendo la strada dello scioglimento disgiunto si rischia, con una legge elettorale che assegna il 55 percento dei seggi alla coalizione che prende un voto in più delle altre, di finire tutti in una situazione paradossale: e cioè nella situazione in cui – sciolta la Camera dei deputati – si va a votare per scoprire il giorno dopo che il premio di maggioranza non è andato alla coalizione di governo, ma ad una coalizione diversa, creata ad hoc per prendere il premio di maggioranza, fare il pieno di seggi e poi frammentarsi in una costellazione di gruppi parlamentari autonomi. Non sarebbe una grande novità per il nostro sistema politico.
E non ci vuole molto ad immaginare che, in questo caso, la Presidenza della Repubblica non potrebbe fare altro se non sciogliere una seconda volta entrambe le Camere (lo scioglimento a catena paventato da ogni studioso delle forme di governo) e portare subito il Paese a nuove elezioni. Con tutto quello che ne verrebbe in termini di sfaldamento del sistema politico e degli assetti istituzionali.
Ora, che questo scenario non sia del tutto improbabile è dimostrato dal fatto che i sondaggi di questi giorni non danno la coalizione di governo (Pdl più Lega) al di là della soglia del 35-40 percento. Il che, pur con tutte le difficoltà del caso, rende l’ipotesi della lista carrozzone, con cui prima conquistare il 55 percento dei seggi e poi, spazzato via il governo, creare dalla macerie un nuovo sistema politico, qualcosa di più di una ipotesi di scuola. Soprattutto tenendo conto del fatto che il 14 dicembre sembra essere la data della discussione in Corte costituzionale della legge sul legittimo impedimento.
Un’altra anomalia (la quarta) non riguarda il divario tra Costituzione del 1948 e logica del maggioritario bipolare. Riguarda il fatto che, in un momento in cui la speculazione finanziaria internazionale, spezzate le reni alla Grecia, si sta concentrando sul debito pubblico di Irlanda e Portogallo e in un momento in cui il Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy dichiara in pubblico che la moneta unica rischia di non superare la prossima crisi, la nostra classe politica si perda in una resa dei conti tutta interna, giocata su regole eluse e su regole inventate, come se si fosse ancora ai tempi in cui le crisi di governo potessero procedere prescindendo da quello che succede sui mercati internazionali e dai costi di finanziamento del debito pubblico.
Ma l’ultima anomalia (la quinta e la più grande) è che da qui al 14 dicembre non è affatto detto che una crisi ci sia e che il Governo non riesca a guadagnarsi una maggioranza anche alla Camera, oltre che al Senato. Se non altro perché non sarebbe una grande novità che qualche parlamentare uscito a parole dalla maggioranza non ci rientri nei fatti. In fondo il divieto di mandato rappresentativo è lì a garantirgli questa possibilità.
Ed è questa la migliore dimostrazione che, maggioritario o proporzionale, non si è mai usciti dal passato e che nemmeno da questo punto di vista ha senso distinguere tra Prima e Seconda repubblica. Maggioritario o proporzionale, siamo ancora tutti lì a confrontarci con le crisi (reali o virtuali) di coalizione e con gli eroi del divieto di mandato rappresentativo, che dicono di uscire dalle coalizioni e poi ci stanno. O ci rientrano.
L’importante è non stupirsi di nulla.