Il fatto nuovo che emerge dalla crisi in corso è la crescita del ruolo del Quirinale. La brusca convocazione dei presidenti delle Camere è stata irrituale anche nello svolgimento: colloqui separati per mediare e trovare una soluzione di fronte all’insorgere di una conflittualità tra i numero 2 e 3 dello Stato su dove verificare la fiducia del numero 4.



Il contesto è quello di un via-vai dei parlamentari da uno schieramento all’altro tra “richiami della foresta” e “campagna acquisti”. Il Parlamento nato incardinato su due grandi partiti registra scissioni in entrambi i campi e nelle più diverse direzioni.

Il premier vincitore è contestato dal Presidente della Camera che manovra per dar vita a nuovi gruppi e a nuovi governi mentre il leader dell’opposizione è cambiato per la terza volta, perde pezzi sulla destra e sulla sinistra e per legittimarsi deve affrontare “primarie” dall’esito molto incerto se non già sfavorevole. Nella maggioranza è scoppiata una lite “d’onore” con una deputata che minaccia di votare la sfiducia e l’altra di uscire dal governo.



Tutto ciò mentre il governo dimostra che l’Italia sembra in buone mani nel fronteggiare la più difficile crisi economica del dopoguerra e nel contrastare una secolare malavita organizzata.

La crescita di Napolitano è quindi la naturale conseguenza della perdita di carisma delle altre principali autorità dello Stato e dei principali leader di partito  con un Parlamento che, nato con sicuri schieramenti tendenti al bipartitismo, è diventato un pollaio frantumato e imprevedibile del tutto indifferente ai rischi nazionali.
Napolitano eletto Presidente della Repubblica come “padre nobile” della sinistra italiana ha vissuto una significativa metamorfosi.



Con il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi il Quirinale sembrò inizialmente assumere le arcigne sembianze di un “contropotere”, ma con il tempo, di fronte all’operare concreto e coscienzioso di diversi ministri, ha assunto un ruolo di “controllo” sempre più privo di pregiudizi.

È con l’indebolimento del premier – sotto attacchi personali e per divisioni della maggioranza – che si è quindi, di fatto, instaurato un regime di “coabitazione” e anche di invadenza preventiva negli atti del governo e nella stessa definizione dell’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri. Però Napolitano ha svolto questa “coabitazione” senza apparire portavoce dell’opposizione:  sulla base di autonome convinzioni e, soprattutto, non facendo mancare apprezzamenti espliciti per determinati atti del governo, del premier e di suoi ministri.

Oggi siamo al decollo di un vero e proprio “presidenzialismo”: in verità non ricercato, ma regalato e necessario.
Tale “terziarità” – che risulta non priva di ampio consenso nell’opinione pubblica – nel quadro di un indiscutibile ridimensionamento dei due principali poli apre le porte a un “terzo polo” come soggetto politico?

Le attuali “grandi manovre” di superamento del bipolarismo e del maggioritario non sembrano però convincenti e popolari. Emerge un insieme di calcoli e cioè tante mezze politiche che messe insieme non fanno un intero. Il Terzo Polo parla molto di legge elettorale, ma in fatto di politica economica è molto sfuggente con i suoi esponenti che – da Fini a Montezemolo, da Rutelli a Casini e Tabacci – dondolano tra mercatismo e assistenzialismo: mani libere a banche e imprese e salari per tutti.

Il caso di Milano è significativo. La candidatura di Albertini è morta in partenza perché nasce tutta su ipotesi a tavolino: la vittoria di Pisapia determinerebbe nel Pd una diaspora a favore dell’ex sindaco. Ma Pisapia è il vero Pd. Si tratta dell’uomo che ha traghettato i dalemiani milanesi fuori da Mani Pulite, “garantista” non certo in polemica con la Procura. Pisapia è stato il principale collaboratore di D’Alema nella Bicamerale e il senatore  Gerardo D’Ambrosio è suo “grande elettore”.

Perché la maggioranza del Pd ha votato Pisapia? Perché a Milano nel Pd si era stufi di avere come candidati personalità certamente ineccepibili, ma che non erano – salvo il caso di Penati – leader politici. In tutti questi anni il gruppo dirigente del Pd milanese si è sempre preoccupato di trovare “papi stranieri” (un tempo si chiamavano “utili idioti”) ovvero candidati che non rischiassero di assumere un ruolo di leader politico. Ma non si può andare all’assalto di un berlusconismo sempre più demonizzato con candidati “usa e getta”.

Con Giuliano Pisapia la sinistra milanese finalmente, anche in caso di sconfitta, ha in consiglio comunale una leadership politica di primo piano. Albertini è certamente una personalità con numerose qualità, ma votarlo è da sinistra una ammissione di inesistenza. A Milano non è percorribile una togliattiana “svolta di Salerno” facendo votare Badoglio in odio a Mussolini. E Bersani si è affrettato a metterci una pietra sopra. Albertini se scende in campo indebolisce la Moratti, ma arriva terzo, non sarà in grado di dare indicazione di voto per il ballottaggio e l’Udc andrà a trattare i posti con la Moratti.

La popolare “terziarità” di Napolitano dovrebbe quindi consigliare un ridimensionamento degli opposti estremismi nei principali partiti se vogliono invertire la tendenza del loro calo. Con la gara delle torte in faccia tra Pdl e Pd crescono Bossi e di Vendola che infatti non strappano un solo voto allo schieramento opposto, ma stanno solo erodendo l’alleato.

Ormai le elezioni sembrano l’unica via d’uscita di fronte al fatto che Berlusconi sta davanti al "pallottoliere" della fiducia senza riuscire a controllare nemmeno le ministre e con Napolitano del tutto indisponibile a dar vita a un governo da Vendola a Fini capace solo a guadagnare tempo senza la minima preoccupazione del precipizio economico e sociale in cui l’Italia rischia di cadere. Per comprendere l’ostilità del Quirinale al cosiddetto “ribaltone” e l’iter dello scioglimento delle Camere può essere utile la lettura dell’intervista del “napolitaniano-antiberlusconiano” Emanuele Macaluso all’”Espresso”.

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