A pochi giorni dal voto di fiducia, programmato per settimana prossima, il “rimpasto” di cui si legge sui giornali si presenta come un’ipotesi sempre meno praticabile, anche se non tecnicamente impossibile, dato che consisterebbe in una semplice sostituzione di alcuni ministri dimissionari con nuove personalità politiche. Nel caso il Presidente del Consiglio dovrebbe chiedere al Presidente della Repubblica di fare le nuove nomine, dopo aver preso atto delle dimissioni dei vecchi componenti del governo.
Se tutto ciò avvenisse nel corso della giornata di lunedì, martedì la mozione di sfiducia potrebbe essere ritirata, ma la recente radicalizzazione delle posizioni tra gli avversari (dimissioni o sfiducia da un lato e il rifiuto di “tradire” il mandato ricevuto dagli elettori dall’altro) avvalora l’ipotesi dello scontro diretto in Parlamento.
Sul voto, abbiamo assistito in queste settimane a una continua guerra di numeri, di cambi di schieramento, di gentili signore della maggioranza che sfidano le possibili doglie da parto pur di essere presenti nel “giorno della verità”. ll che si spiega visto che la sfiducia può essere votata a maggioranza semplice; in altre parole, è sufficiente che la metà più uno dei presenti approvi la (voti sì alla) relativa mozione per aprire la crisi di governo.
Una crisi i cui sviluppi sono difficilmente prevedibili vista l’insufficienza della prassi fin qui seguita a rispondere in modo coerente a una situazione per molti aspetti inedita, per due motivi: la nuova legge elettorale del 2005, che ha consentito al corpo elettorale di indicare il candidato premier pur in costanza di un sistema costituzionale basato sulla nomina presidenziale e sulla fiducia, e i risultati delle elezioni del 2008, che hanno sancito la tanto agognata bipolarizzazione della politica italiana, vanificata dalle scelte di Fini.
Se martedì si voterà, alle 9 del mattino – secondo la scelta fatta con l’accordo di tutte le parti in causa – comincerà l’appello nominale al Senato, dove il Governo ha sulla carta tutti i numeri per vincere e anche qualcuno in più, come conseguenza di un premio di maggioranza attribuito a livello regionale e di senatori che non hanno aderito alle scelte compiute da Gianfranco Fini.
Alle 10 e 30 inizierà invece la votazione alla Camera, con tutte le incertezze del caso. La maggioranza semplice, infatti, è assai rischiosa per l’attuale maggioranza: in caso di assenza, anche fortuita, di qualche deputato, crescono le possibilità per i finiani e per i loro soci di ottenere l’assenso alla sfiducia e, quindi, le dimissioni del premier.
In termini numerici, se su 630 deputati in aula martedì mattina ne saranno presenti anche solo 626, basteranno 314 voti a favore della mozione di sfiducia per provocare la crisi; e come tutti abbiamo letto, gli avversari del governo hanno dichiarato di avere dalla loro ben 317 voti.
Vero o falso che sia, ad oggi non è facile prevedere come voteranno – uno ad uno e con dichiarazione di voto – i singoli deputati, dichiarando uno per uno al Paese, in attesa davanti al video, qual è la loro posizione politica, se pro o contro il governo. E li potremo vedere tutti, dal più famoso all’ultimo per fama o per età: sarà un vero e proprio giudizio ad personam che avrà come conseguenza o il permanere in carica dell’attuale governo, in una situazione di precarietà da cui non sarà facile uscire, o l’apertura della crisi.
Aperta la crisi, la parola passa al Capo dello Stato, perché eserciti il suo non agevole ruolo di mediatore. Sono solo due i poteri che la Costituzione gli attribuisce: la nomina del Presidente del Consiglio e il potere di scioglimento delle Camere (o anche solo una di esse) sentiti i loro Presidenti.
Norme quanto mai essenziali, che la prassi di questi decenni si è fatta carico di concretizzare ma la cui lettura, ultimamente, finisce per essere condizionata da una molteplicità di fattori, i più rilevanti dei quali sono certamente i rapporti di forza tra le diverse componenti del sistema politico, come più volte e da più parti si è messo in luce in queste pagine.
Il che rivela ancora più chiaramente come la costituzione formale, se non poggia su una solida costituzione materiale, finisce per essere una sorta di flatus vocis, uno strumento che non suona da sé ma che si limita a dare voce alla partitura e, soprattutto, all’abilità dell’interprete.