Salverino De Vito, chi era costui? La domanda, più che legittima da parte di un qualsiasi giovane di oggi, induce a un doveroso ricordo chi giovane lo è stato quando questi era ministro del Mezzogiorno.
Il suo cognome, da sottrarre al destino di novello Carneade, resterà per sempre legato alla legge “44” (del 1986) come amava chiamarla lui, da personaggio schivo, e unico come il suo nome di battesimo, quale era. Legge che invece andrebbe appunto ricordata, più propriamente, come legge De Vito (un solo dato: grazie ad essa sono nate negli anni ben 1.200 imprese).
Una legge sull’imprenditoria giovanile che si staglia come una perla rara all’interno del mare magnum degli interventi straordinari per il Sud, che evocano oggi più l’idea dell’assistenzialismo, dello spreco, se non dell’infiltrazione malavitosa nell’erogazione dei fondi.
Quello invece fu un vero intervento in chiave sussidiaria, come rifletteva Mario Mauro commentando la triste notizia della morte dell’ex ministro che gli avevo appena riferito. Perché Mario, al pari di tanti giovani che avevano studiato al Nord e poi erano tornati nella loro terra di origine, è uno dei tanti che ci aveva scommesso, su quella legge, e si è trattato di una scommessa vinta per lui se “L’Opera” (fondata a Foggia dall’attuale capodelegazione italiano del Ppe a Strasburgo coinvolgendo da giovane docente un gruppo di suoi allievi) ancora oggi dà lavoro a tante persone nel settore delle videocomunicazioni, guidata da quegli studenti che si erano coraggiosamente lanciati nell’intrapresa.
Ma quale era la felice e coraggiosa intuizione di quella legge, frutto – va detto – dell’incontro fra due belle teste, De Vito, appunto, e Carlo Borgomeo, attuale presidente della Fondazione per il Sud?
L’idea era quella di finanziare non un imprenditore, o un “figlio di”, ma chi, avendo un’idea e una competenza per portarla avanti, non aveva gli agganci giusti per avere i finanziamenti e per poter fare i relativi investimenti. Una sorta di prestito d’onore, che spezzava sul nascere ogni legame clientelare perché era di tutta evidenza che farsi finanziare dei macchinari e assumere delle persone senza avere voglia e capacità di stare sul mercato sarebbe stato solo un boomerang per chi maldestramente ci avesse provato.
La selezione, dunque, avveniva – fisiologicamente – più sul coraggio nell’intrapresa, sulla capacità di mettersi assieme ad altri, sulla creatività, che sulle conoscenze e sulle entrature. Perciò era coraggiosa, perché non era in grado, per un politico, di creare sacche di assistenzialismo su cui lucrare, ed era dunque una legge che assomigliava pari pari al ministro proponente, personaggio semplice ed essenziale.
Un maestro elementare da sempre impegnato in politica, ma che amava rapportarsi con uomini di cultura, cito per tutti il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, uno dei tanti intellettuali con cui era in contatto nel tentativo di dare un respiro strategico alla sua azione. De Vito era uno che metteva veramente al centro della sua azione l’investimento sui giovani.
Chi scrive, giovane consigliere comunale e poi assessore ad Avellino, ne ha anche personalmente beneficiato, in termini di stima (ricambiata) senza averne particolare titolo. Dote rara nei politici, e non solo, più avvezzi a mettere i giovani l’uno contro l’altro per scongiurare, con la divisione, la potenziale successione.
Ma c’è un’altra cosa che vorrei ricordare per amore di verità, e anche quella scaturisce dal colloquio con Mario Mauro. Il quale ricordava – lo sapevo anch’io, ma a volte si teme di ricordare male – come la stessa Compagnia delle Opere, in sostanza, sia nata nell’intuizione di don Giussani come una forma di sostegno operativo alle tante opere nate al Sud nella seconda metà degli anni ’80, proprio sull’onda delle legge De Vito che faticavano a fare rete e a relazionarsi con iniziative più floride e radicate, presenti al Nord.
Proprio quello era nei desideri di De Vito, che si inventò anche delle iniziative di formazione molto importanti al solo e unico scopo di trasferire al Sud know-how – come dico le persone competenti – dal Nord al Sud.
Un altro ricordo che lascia, anche qui ho validi testimoni a confermarlo, è la sua gratuità, il distacco con cui portò avanti queste opere, senza nulla chiedere in cambio. Credo che tutta la polemica poi scaturita sull’Irpiniagate lo abbia ferito profondamente, per il marchio d’infamia che infliggeva a un’intera provincia colpita al cuore dalla più grande sciagura italiana del dopoguerra. Vicenda nella quale peraltro lui era coinvolto in prima persona sia come sindaco di Bisaccia (altro impegno che gli ha causato più grane che riconoscimenti) sia come ministro coordinatore degli interventi, anche se gli sprechi più imponenti, in realtà, videro l’Irpinia – e con lui De Vito – come parte lesa per l’ingiusto ampliamento dell’area dei contributi, e per i tanti imprenditori del Nord che piombarono al solo scopo di lucrare i contributi.
Con un perverso ruolo svolto dalle banche, come ha bene ricostruito Giuseppe Zamberletti nel trentennale del disastro: gli istituti di credito infatti avevano l’interesse a spedire nel terremoto del Sud aziende già indebitate e affamate di finanziamenti “mordi e fuggi”. Ma chi, come la Ferrero, è venuta con tutt’altre ragioni è ancora lì a produrre. E io ieri ho acquistato al supermercato due barattoli di Nutella (mi perdonate per la pubblicità?) solo dopo aver letto sull’etichetta: “Prodotto nello stabilimento di Sant’Angelo dei Lombardi”.
Non sapevo ancora della morte appena avvenuta di Salverino, uomo buono, semplice e appassionato, un meridionalista senza la spocchia di esserlo. Ma quella Nutella la dedico a lui, come per ricordarlo con affetto immutato, aggiungendoci una preghiera, memore del tanto bene gratuito dispensato senza chiedere contraccambio.