Il via libera politico a negoziare un accordo con l’Udc (sempre che Pier Ferdinando Casini ci stia) Umberto Bossi gliel’ha concesso volentieri. “Non c’è nessun veto all’ingresso dei centristi…”, ha abbozzato sornione, a voto ancora fumante, il Senatur. In cambio, il Carroccio avrebbe strappato garanzie sul federalismo e sullo sbocco elettorale, se in pochi giorni la macchina del governo non riprendesse a marciare spedita. Ma per il Cavaliere tornare a bussare alla porta centrista potrebbe rivelarsi in ogni caso una tagliola inesorabile. Il massimo dell’allargamento possibile, alle condizioni date, ma anche il massimo del rischio.
La fiducia strappata sul filo del rasoio e la sconfitta della fronda finiana regalano al premier una vittoria numerica ancora tutta da consolidare in chiave politica. Ed è evidente che sarà il Carroccio il gran mazziere del governo. Sarà via Bellerio, ancor più di prima e questa volta senza alcun contrappeso interno, a dare il ritmo all’esecutivo, a deciderne tempi e contenuti: se proseguire anche dopo gennaio, quando verranno approvati verosimilmente i decreti sul federalismo, oppure staccare la spina per andare all’incasso elettorale, drenando voti anzitutto all’amico Silvio. Magari ammaccato dal pronunciamento sul legittimo impedimento, nel più classico bacio della morte. L’apertura ai democristiani, osteggiata da gran parte della sua base, sta perfettamente in questo disegno. Lo scopo costituente del leghismo di governo è quello di portare a casa il federalismo o comunque il suo feticcio, costi quel che costi. Un negoziato con l’Udc che passi a certe condizioni dal suo re-imbarco al governo potrebbe essere anche nell’interesse di Bossi.
Permetterebbe infatti al Senatur di mettere a segno alcuni colpi: integrare l’Udc nell’iter dell’approvazione finale dei decreti attuativi del federalismo, evitando che il partito centrista si faccia promotere di un referendum popolare per abrogarlo; accreditarsi definitivamente con il Colle, che ne apprezzerebbe la virata costituzionale in tempi di speculazione finanziaria; e soprattutto presso le gerarchie vaticane (cardinale Tarcisio Bertone in primis) che spingono per una convergenza Berlusconi-Casini e presso la galassia ex Dc che governa le grandi fondazioni bancarie, che hanno in pancia i pacchetti di controllo dei sacrari del capitalismo del nord.
Naturalmente sarebbe una fiducia a tempo, condizionata a temi come il quoziente familiare e in cambio di un ripensamento centrista sul federalismo. A patto che non sia troppo invasiva e penalizzante per il profilo di lotta e di governo del Carroccio. Ma Bossi farebbe sempre a tempo a staccarsi e a staccare la spina all’esecutivo al momento opportuno, giusto per il voto di primavera. Addossando le colpe delle mancate riforme ai democristiani e allo stesso Cavaliere che ha voluto richiamarli in servizio. Il suo è come spesso accade in questi anni un gioco win-win. Provare un mini abboccamento in fondo non costa quasi nulla.
Eccola dunque la road map leghista: si proverà un abbozzo di negoziato con Casini, manfrina o cosa seria, lo si capirà a breve. Se poi mancherà lo spazio o il leader Udc non ne vorrà sapere di rientrare, si spalancherebbero subito le porte del voto. Ma il punto vero è che oggi il pallino è tutto in mano a Bossi. Sarà lui, se del caso, a costringere un riottoso Berlusconi a salire al Colle. Già nella divisione dei ruoli è chiaro lo schema: i delfini Roberto Maroni (“il premier allarghi la maggioranza o non resta che il voto e comunque l’Udc ha votato contro il federalismo, dunque la strada non è in discesa”) e Roberto Calderoli (“il governo non mangerà la colomba”) a mettere pressione e tenere in campana gli attori in campo; il capo supremo a dare l’ok al (difficile) negoziato. Tutto si tiene insomma.
Ancora qualche giorno, e se ne capirà di più.