Nel commentare il voto di fiducia a Berlusconi e i possibili sviluppi  – tra legittima euforia e motivato spirito di rivincita – si è perso di vista l’elemento forse più decisivo che è alla base della vicenda. Se si parla di “vittoria di Berlusconi” è facile replicare “vittoria di Pirro”. Sfugge però il dato di fondo e cioè che la “vittoria” ha alle spalle un autentico “salvataggio” con motivazioni profonde soprattutto circa l’inaffidabilità del Pd nella situazione attuale. In che senso?



L’attacco a testa bassa di Fini aveva scatenato un pandemonio istituzionale con uno scontro frontale tra i vertici di Camera e Senato sui tempi e i modi del dibattito sulla mozione di sfiducia presentata a Montecitorio. In quel momento Berlusconi era chiaramente in minoranza nell’assemblea presieduta dal cofondatore e l’accelerazione data con il deposito del testo firmato da Fini-Casini-Rutelli era chiaramente finalizzata a bruciare i tempi e a far precipitare la situazione al fine di aprire la strada ad un governo di emergenza.



A quel punto però il Quirinale non ha “lasciato fare”, non ha fatto il notaio, ma è sceso personalmente in campo con un’irrituale (e un tantino brusca e polemica) convocazione dei due “litiganti” prendendo direttamente in mano la situazione, trovando (e imponendo) una via d’uscita.  Perché quella soluzione ha “salvato” Berlusconi? Per ragioni di metodo e di sostanza.

Innanzitutto il Presidente della Repubblica si è preoccupato che venisse “blindata” la politica di Tremonti. La legge di stabilità (ex finanziaria) non solo è l’atto formalmente più qualificante del governo. In particolare in questo momento di turbolenza economica e finanziaria Napolitano ha sostanzialmente ritenuto che la politica del governo va bene, non va messa a repentaglio e deve essere un punto fermo dell’Italia agli occhi dei mercati internazionali.



Una difesa quasi “a scudo umano” della legge più importante del governo e più contestata dall’opposizione (la mozione di sfiducia aveva il giudizio negativo su Tremonti come più concreto e rilevante riferimento). Non è un segnale da poco.

A questa “sostanza” si aggiunge il “metodo” e cioè la decisiva calendarizzazione  fatta accettare – non con incontro collegiale, ma attraverso colloqui paralleli – ai duellanti Presidenti delle Camere che ha bloccato il precipitare degli eventi e ha imposto quel mese di tregua e di respiro senza il quale Berlusconi non avrebbe potuto riorganizzare le file e, soprattutto, correggere il tiro uscendo da un angolo di sicura sconfitta in cui si era cacciato avendo come unico deterrente una minaccia di elezioni anticipate che, anziché aggregare consensi nel Parlamento dei nominati-sradicati, li faceva perdere.

Berlusconi ha quindi barcollato finché è apparso  a rimorchio della Lega continuando a minacciare elezioni anticipate. È stato solo quando si è allineato con l’indicazione che il Quirinale aveva dato già nelle settimane precedenti – né elezioni, né ribaltone – che ha potuto iniziare una crescente e vincente rimessa insieme dei cocci.

Questo comportamento non notarile e decisivo di Napolitano dovrebbe far riflettere innanzitutto l’opposizione e in particolare il Pd.

È evidente che Giorgio Napolitano non è certo un fan di Berlusconi, non è molto sedotto dal suo “stile di vita”, il Quirinale ha anzi motivi di fastidio e di rimostranza per il modo in cui Palazzo Chigi abbia trascurato di rendere conto in particolare dei rapporti internazionali e per l’essere oggetto di attacchi personali persino insultanti, come è accaduto nel caso del “ce ne freghiamo delle prerogative del Quirinale”, da parte dei vertici del Pdl.

È noto che Giorgio Napolitano, pur nel rispetto dei vincoli istituzionali, sarebbe personalmente ben più contento se in Italia ci fosse una maggioranza progressista, con un governo di gente equilibrata e con la testa sulle spalle che si richiama al socialismo europeo.

Perché allora ha “salvato” Berlusconi? Il punto di partenza è proprio la politica di stabilità economica e la credibilità che essa ha sui mercati internazionali.

Veniamo quindi alla questione di fondo: perché l’opposizione, il suo principale soggetto che è il Pd, non è affidabile come forza di governo in questo momento di crisi? Perché – e di ciò è alla fine espressione l’atteggiamento di Napolitano – tutto ciò che è “sistema Italia” preferisce andare avanti con questo governo in quanto l’opposizione non è assolutamente affidabile e prospetta il rischio di portare il Paese allo sbaraglio.

Agli occhi degli italiani tutta l’opposizione  sembra “tifare” perché si finisca con Spagna e Grecia nel gruppo “pigs”. La Sinistra (Di Pietro compreso)  promette tutto a tutti e  “cavalca” precari e contestatori prospettando assunzioni e promozioni generalizzate che spaventano gli imprenditori e disarmano i giovani sul mercato del lavoro.

Probabilmente fu un errore non perseguire il disegno della “vocazione maggioritaria” da parte dello stesso Veltroni che non ebbe la forza di rompere con Di Pietro. Oggi il Pd di Bersani propone un “nuovo Ulivo” che da un lato è ancora più improbabile di quello di Prodi  – da Sel a Fli – e dall’altro è ancor più minato e incalzato da tutte le parti. Rispetto al 2008 Di Pietro è più forte e in più c’è Beppe Grillo, la sinistra antagonista non è più Ferrero e Diliberto, ma un baldanzoso e crescente Nichi Vendola, il Pd ha perso Rutelli, vede divise non solo le due componenti “fondatrici”, ex Pci ed ex Dc, ma anche gli ex Pci che si sono, a loro volta, ulteriormente divisi con la diaspora di Veltroni e i malumori di D’Alema verso Bersani. Da parte sua il leader del Pd, Bersani, si è messo in testa di fare il candidato premier, ma ha paura delle primarie e delle politiche.

La linea del Cln, del Fronte popolare antifascista contro il premier,  che ancora oggi si vagheggia chiedendo, da Di Pietro a Casini, di mettere insieme tutti gli oppositori di Berlusconi può essere realizzata solo come “golpe” nel chiuso dell’aula parlamentare, al motto “chiudete le porte e spegnete le luci”. Probabilmente è questo modo di procedere “goliardico”  – senza piattaforma positiva di fronte  agli impegni economici europei e militari internazionali – che ha suscitato la preoccupazione del Quirinale. Ma  quell’agguato “a fari spenti” mettendo insieme “uomini d’ordine” e “sessantottini” contro Berlusconi è fallito e non è esportabile alla luce del sole in una campagna elettorale. Ormai, dopo i voti di fiducia provocati da Fini prima a  settembre e poi a dicembre, l’alternativa è: Berlusconi e/o elezioni. Che fare?

Le strade del Pd sono due: o allearsi con Vendola rischiando però di esserne scavalcati oppure “agganciare” il Polo della Nazione offrendogli  la premiership.  Ma Fini e Casini dopo aver fallito la spallata in seno al “Palazzo” hanno come strada obbligata quella di contestare duramente Berlusconi, però marcando le distanze dalla sinistra. La loro speranza ormai è tutta concentrata sull’andare alle elezioni con questa legge elettorale che probabilmente permetterà loro di essere determinanti al Senato e quindi di imporre un nuovo centro-destra senza più la leadership di Berlusconi. Il loro orizzonte è pertanto nettamente distinto da Di Pietro, da Vendola e anche dal Pd che va sui tetti.

Il Polo della Nazione voterà infatti la riforma universitaria della Gelmini (uno dei ministri incoraggiati da Napolitano nel suo messaggio di fine anno 2009) proprio per contrapporsi alla sinistra e ribadire l’ ambizione di Fini e Casini di “scalare” il centro-destra e di farne uscire uno nuovo dalle prossime elezioni politiche. Essi puntano alla leadership dell’area moderata e non di quella progressista considerando Berlusconi in affanno,  il Pdl in fermento, Bersani ed il Pd in stato del tutto ondivago e senza certezze su leadership e politica dei prossimi mesi.

Se il Pd rimane sempre più in uno stato sostanzialmente inerte ciò è dovuto al fatto che da più di quindici anni il suo gruppo dirigente postcomunista si è sempre più impigrito, disabituato al fare politica. Sono quindici anni che dicono che Berlusconi è finito, che si è alla vigilia di una “scossa” – da Stefania Ariosto a Ruby – e che da un momento all’altro “arrivano i nostri” e cioè i magistrati che “fanno fuori” Berlusconi e consegneranno loro il governo. 

Man mano è cresciuto nel Pd un fatalismo di sinistra con i suoi leader sempre in attesa di choc extraparlamentari e che vediamo trascorrere le proprie serate con comici, vignettisti e animatori vari sempre a ridere di Berlusconi e mai a ragionare sulle cause più profonde di vittorie e sconfitte.

Un tempo con il Psi di Craxi e il Pci dove Napolitano era responsabile esteri a Roma era un continuo via vai di capi di governo e di partito del socialismo europeo. Chi da Zapatero a Mandelson prende oggi sul serio il Pd, ha voglia di venire a Roma a dar loro manforte?

Gli ex Pci che oggi hanno in mano il Pd – prima di disegnare organigrammi, carriere personali ed alleanze elettorali e continuare a ridere nei loro rassicuranti  “bunga bunga”  televisivi –  dovrebbero riflettere sul percorso da essi fatto dal 1989 espellendo, colpo su colpo, riformismo comunista, riformismo socialista e riformismo cattolico e inseguendo movimentismo e giustizialismo, mettendosi nelle mani di giudici e banchieri e proponendo agli italiani una sinistra tutta Resistenza “rossa”,  Sessantotto e Mani Pulite senza fine.

Una sinistra che non mette chiari “paletti” sulla sua sinistra nei confronti dell’estremismo (si tratti di studenti, ma anche di conduttori televisivi)  non sarà mai credibile come “classe di governo”, non avrà il volto di una classe dirigente cui affidarsi nei momenti difficili. Questo l’aveva capito anche Palmiro Togliatti.