Tutto bene, madama la marchesa…
È un grande muro di gomma quello alzato dal Cavaliere nella consueta conferenza stampa di fine anno. Un lungo zibaldone in cui il premier ha messo sul tavolo il riassunto dell’anno che si chiude (dalle riforme alla “monnezza” al nuovo nome del partito) e i desideri per quello entrante. Mostrando un ottimismo e una sicumera sospetta anche per un venditore indefesso.
Silvio Berlusconi ha spaziato sull’universo mondo. Ha rispolverato la specialità della casa, l’offensiva contro i magistrati, accusati di cospirazione “eversiva”, annunciando una commissione d’inchiesta. Un ceffone preventivo in vista del pronunciamento della Consulta sul legittimo impedimento, in calendario l’11 gennaio, che potrebbe sfasciare qualsiasi road map del premier.
Ha ri-attaccato Fini (“senza di lui si governa meglio”). Ha minimizzato lo scandalo Prestigiacomo (“il caso è chiuso”). Ha chiuso la porta a manovre correttive in primavera. È tornato sulle parole di sua figlia Barbara, dicendo che “sono influenzate dalla madre”. E soprattutto ha continuato l’adescamento verso il Terzo polo, cioè Casini (“ci vuole un tavolo”). Pigliandosi a stretto giro l’ennesima rampogna della Lega, dopo la mosconata di ieri (la richiesta al Parlamento di discutere le dimissioni di Fini proprio mentre è in corso il forcing berlusconiano per staccare pezzi di Fli) che già lo aveva mandato su tutte le furie. «Sarebbe un errore, meglio il voto», ha raddoppiato ieri Roberto Maroni.
In realtà dietro il monologo la situazione si sta via via definendo. Il Cavaliere ha suppergiù un mese di tempo per dimostrare al Carroccio di poter proseguire la legislatura con un margine di sicurezza. Dodici-quindici deputati alla Camera sopra quota 316. Per Casini le porte restano aperte ma è difficile che il leader centrista, nonostante il pressing del Vaticano che spinge per il riabbraccio, possa rientrare nei ranghi senza un segno di discontinuità.
Più probabile un appoggio esterno su singoli provvedimenti, una sorta di neo desistenza programmatica, oppure il reintegro nella maggioranza di qualche scheggia futurista. Già, ma basterà per convincere il Senatur? Difficile dirlo. Già così la Lega scalcia, chiede garanzie al premier, pizzica Fini, non si fida di quel “democristo” di Casini che punterebbe a logorare l’esecutivo, trasformando Berlusconi in un novello Prodi.
Nelle mosse del Carroccio c’è ovviamente un grumo di strumentalità: ingigantire il problema per far pesare la propria golden share e chiudere senza scherzi i decreti attuativi del federalismo. Ma alla lunga non può davvero continuare a traccheggiare. Più del tempo che scorre, in via Bellerio temono le astuzie casiniane, la palude, l’inagibilità politica.
Dunque se a fine gennaio non ci sarà un allargamento per le riforme, Berlusconi (e Napolitano) dovrà farsene una ragione. Tanto più che un voto anticipato causerebbe un ulteriore travaso di consensi dal Pdl alla Lega. Insomma è questa la tenaglia che il Cavaliere proverà a rompere nei prossimi giorni.
Con Bossi, infatti, i rapporti restano buoni, ma dietro all’impazienza del Senatur Berlusconi teme si muova nell’ombra Giulio Tremonti, il concorrente interno che teme di più, convitato di pietra di tutta la crisi di governo.
Il resto per ora è tattica: le voci sul Quirinale come la possibilità che non sia più Berlusconi a ricandidarsi nel 2013. Sono tutte manovre per sedurre i riottosi, e ingolosire Casini (e Fini) su una possibile riapertura della corsa alla successione. Ma è un gioco usurato, dal destino incerto.