In questi giorni in Italia si è improvvisamente riacceso il dibattito sul testamento biologico: sembrava caduto in una sorta di letargo invernale o se si preferisce in uno stato comatoso, da cui non si riusciva a tirarlo fuori! Eppure all’improvviso il dibattito si è di nuovo attivato e il disegno di legge sul Consenso informato, sull’alleanza terapeutica e sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) è riapparso in televisione e sulla stampa con il vecchio nome.



Come se dopo tutto il dibattito dei mesi scorsi il rapporto tra il disegno di legge sulle DAT e il rapporto con la morte fosse inevitabile. Tutti sanno infatti che “Testamento biologico” non è il vero nome del disegno di legge che attende di essere approvato alla Camera ormai da molti mesi. Ma il termine è ormai entrato a far parte della cultura generale e non sarà facile ricondurlo al suo reale significato: una dichiarazione che esprime un desiderio, un orientamento sul tipo di cure che si vorrebbero ricevere nel momento in cui non si fosse più in condizione di esprimersi con chiarezza. Non è solo una questione linguistica o una fissazione ideologica, è questione di rispetto per la verità.



È questione di rispetto per le persone, di tutela della loro vita, soprattutto nei momenti in cui sono più fragili e non sono in condizione di prendere delle decisioni in modo autonomo. Nello stesso tempo è espressione di quel realismo psicologico che coglie con chiarezza e profondità come sia diverso prendere una decisione che potrebbe attualizzarsi in un momento di grave o gravissima disabilità, godendo invece di buone o eccellenti condizioni di salute

Il termine testamento nel linguaggio giuridico e nell’uso quotidiano riguarda la volontà di disporre delle proprie cose dopo la propria morte. Non ha nulla a che vedere quindi con un disegno di legge che invece riguarda la volontà di disporre di se stessi mentre si è ancora in vita. Cambia l’oggetto e cambiano i tempi, il che significa che cambia anche il senso delle decisioni che si stanno per prendere o il valore delle dichiarazioni che si stanno per rilasciare.



Nel concetto di testamento la morte ha un impatto fortissimo che determina l’attualizzarsi di una volontà che si è espressa in precedenza e diventa irreversibile proprio nel momento della morte. Viceversa nel disegno di legge in questione l’attenzione è tutta concentrata non solo e non tanto sulla fase finale della vita, quanto sul lungo itinerario che una persona può trovarsi a percorrere dal momento in cui entra in uno stato cosiddetto vegetativo e il termine della sua vita. Sappiamo che è un tempo che può andare da pochi anni fino ai 17 anni di Eluana Englaro e oltre. Un periodo di tempo in cui le persone potrebbero anche trovarsi in uno stato di minima coscienza di cui ignoriamo fino in fondo la portata e che più che essere considerate delle malate vanno considerate come gravi o gravissimi disabili. 

Il dibattito sulle DAT in questi giorni si è riacceso anche perché sono giunte dall’America notizie inquietanti sulle scelte fatte dal Presidente Obama, proprio in merito al fine vita, una scelta provocatoria che arriva nel giorno di Natale… Non si capisce bene se per farne uno strano dono agli americani anziani, malati, oppure alle Assicurazioni che dovrebbero prendersi cura di loro. Una decisione ambigua e preoccupante che speriamo produca in Italia una decisa inversione di tendenza…

Quello che è accaduto negli USA sembra una semplice modifica nel regolamento del Medicare, il programma federale di assicurazioni che copre gli over 65, eppure da oggi in America si potrà morire chiedendo semplicemente di sospendere le cure, tutte, non solo quelle salvavita, ma anche quel famoso sostegno di base che assicura per tutti noi un filo diretto con la vita, e che proprio per questo cura non è.

L’equivoco si gioca ancora una volta sul rapporto tra le cure, che il paziente può rifiutare nel momento in cui le sue decisioni sono attuali e consapevoli, e le modalità più o meno sofisticate con cui gli viene assicurata la necessaria nutrizione e l’indispensabile idratazione. L’equivoco si basa sulla semplificazione per cui si attribuisce valenza terapeutica alle tecnologie con cui si garantisce al malato il livello nutrizionale di base. 

Il malato potrà rifiutare nutrizione e idratazione, e qualcuno gli spiegherà come e perché questo è un suo pieno diritto, senza tener conto che nessuno potrebbe sopravvivere a lungo senza cibo e senza acqua. È inevitabile chiedersi se chi sarà incaricato di illustrare al malato – probabilmente in una fase della sua vita in cui è perfettamente sano – il nuovo modello di testamento biologico americano, gli dirà anche che nessuno può vivere senza l’uno e senza l’altra.

Non sappiamo se gli spiegherà anche come si muore per disatrazione, se gli descriverà la sofferenza delle mucose inaridite, il rischio altissimo delle piaghe da decubito… Perché l’inganno potrebbe essere anche solo nella parzialità dell’informazione: un’informazione che si ferma all’atto della decisione, rappresentandola come un gesto di libertà, e non parla affatto delle conseguenze di quella decisione. O magari parla di morte, ma non di come si muore, parla di fine dei disagi, ma non dell’impennata che questi disagi possono avere proprio prima della morte, che arriverà rapidamente, ma non così rapidamente da non creare ulteriori sofferenze a lui e alla sua famiglia.

Strano giorno per questo annuncio di morte, nel giorno in cui tutti i cristiani hanno ricordato la Vita per eccellenza, Dio che sceglie di nascere come uomo tra gli uomini, per portare loro gioia e serenità. Eppure è stato scelto proprio il giorno di Natale, quando tutte le famiglie sono unite per festeggiare la nascita del Signore, magari nel tipico clima familiare che lega la festa ad una tavola imbandita con maggiore abbondanza e ricercatezza. In questo giorno, che per i cristiani segue alla Notte Santa, qualcuno parla di morte e di morte per sospensione di nutrizione e idratazione…

Uno strano Natale che ha senso solo per chi non crede, non crede nel Dio che si fa uomo, ma non crede neppure nella possibilità dell’uomo di farsi incontro a Dio. In Italia la reazione è stata abbastanza debole: il Corriere ne ha dato notizia, anticipando come spesso fa gli altri giornali. Avvenire ha raccolto le reazioni di un gruppo di parlamentari bipartisan, di quelli che da sempre si riconoscono nella comune appartenenza alla fede cattolica, ma poi un nuovo torpore si è steso sull’opinione pubblica, in attesa di una nuova provocazione che cerchi di scardinare ancora una volta il comune sentire dei fedeli.

Ci ha provato la trasmissione di Fazio e Saviano, con un ostentato disprezzo verso il diritto a esprimersi di quanti nonostante tutto amano la vita e vogliono continuare a vivere. Ci hanno ripetutamente provato i radicali, che hanno mandato in onda il loro spot sull’eutanasia, in barba a qualsiasi indicazione del nostro codice penale che punisce sia l’istigazione al suicidio che l’omicidio del consenziente. Ci hanno provato appellandosi alla libertà: libertà di informazione, libertà di occupare spazi televisivi in autogestione, libertà di esercitare come sempre il loro diritto alla disobbedienza civile, come se per loro le regole non valessero mai, mentre sono pignoli custodi di leggi e regolamenti quando si tratta di difendere le loro posizioni.

Una provocazione continua, che ha chiesto di portare in aula non il disegno di legge sulle DAT, ma proprio il tema dell’eutanasia, immaginando anche qui in modo assolutamente contraddittorio che se questa fosse legalizzata non ci sarebbero più suicidi… Così ha sostenuto la capogruppo dei radicali subito dopo il suicidio di Mario Monicelli, chiedendo appunto di aprire il dibattito in aula sulla eutanasia. In realtà con tutta probabilità passeremmo dal suicidio al suicido assistito e qualcuno potrebbe perfino pensare e far pensare che così si umanizzerebbe il suicidio. Strana cultura che mentre chiede l’abolizione della pena di morte apre alla morte in mille altri modi. 

Sono i paradossi del nostro tempo! Far passare per libertà individuale quella che appare come una sorta di congiura sociale. In tempi oggettivamente ancora molto difficili per la ripresa economica negli Stati Uniti, con un tasso di disoccupazione sempre più elevato, le assicurazioni mediche americane hanno trovato un modo efficace per contenere la spesa sanitaria. Basta convincere le persone anziane, sole, malate e senza altri punti di riferimento che non vale la pena vivere in questo modo. Possono morire rendendosi ancora utili alla società, evitando di essere di peso e di assorbire risorse non solo di tipo economico o magari attraverso la donazione di organi.

Possono morire non per abbandono, ma perché si riappropriano del loro destino e decidono di lasciarsi in dono agli altri proprio come prevede il testamento. È la tesi paradossale che già 30 anni fa R. Widmark sosteneva nel suo romanzo: "La morte moderna", (edizione Iperborea), di una attualità sconcertante proprio alla luce di questi ultimi fatti. La sua tesi riguardava il fallimento dell’eutanasia individuale e la necessità di doverla sostituire con un tipo di eutanasia sociale, che creasse solidarietà ed emulazione tra gli stessi anziani, rendendoli felici di morire mentre continuavano ad essere utili agli altri.

E il giorno di Natale scelto da Obama per il suo sconcertate annuncio ha avuto un fortissimo valore simbolico, per far percepire in modo stridente la solitudine e l’abbandono.È come se la morte fosse stata messa in offerta speciale. Si è detto agli anziani soli e malati, ai pazienti immobilizzati da gravissime forme di disabilità: cari signori, basta chiedere e la vostra vita può arrivare rapidamente al capolinea, con tutte le certificazioni di Stato. Ma nonostante ciò ben sapendo che non sarebbe stato facile far accettare tutto ciò a una gran parte di gente semplice, con valori forti e solidamente ancorati all’esperienza della vita e della famiglia, si è tentato il solito maquillage linguistico. Parole vecchie, scelte tra le più care ed accattivanti, a cui si è attribuito un significato nuovo, una chiave applicativa inattesa ed imprevedibile.

Le parole chiave per far accettare questo regolamento, che sarà poi applicato dai cosiddetti burocrati della morte, come i repubblicani hanno chiamato i medici certificatori previsti dalla legge e pagati dalla legge, sono accattivanti e persuasive. Mettono l’accento sulla libertà personale, sul principio di autodeterminazione, sul rifiuto dell’accanimento terapeutico e sulla fatica del vivere in certe condizioni. Una lunga sequenza di parole che in realtà nascondono problemi di ben diversa portata.

Per esempio il costo elevato dell’assistenza alle persone spesso anziane e malate, un costo che grava soprattutto sulle famiglie e che lo Stato, e tanto meno le assicurazioni,  non intendono condividere o alleviare. Un costo considerato inutile, data la mancata produttività di queste persone, la cui vita appare ai loro occhi del tutto inutile.

Il vero problema è la fatica dei familiari, destinati a farsi carico in perfetta solitudine dell’assistenza alle persone care malate. Anche a loro il regolamento di questa legge parla con linguaggio suadente, offrendo una diversa, ma non per questo meno cinica, forma di liberazione. Dopo averli lasciati soli nella loro fatica, si mette in gioco perfidamente il capovolgimento delle categorie affettive, per cui chi cura ed assiste viene accusato di accanimento terapeutico, mentre chi decide che ormai anche lui ha diritto di dire basta e di ricominciare a occuparsi di sé e delle proprie cose, viene considerato un liberatore e un salvatore.

La pietà non è più quella di chi assiste, ma quella di chi smette di assistere, il valore della famiglia non è più nella relazione di cura, ma nella interruzione delle cure. La loro fatica è stata completamente ribaltata, considerandola non più come un atto d’amore, ma solo come una forma di egoistico accanimento sociale. Chi più ama meno assiste, chi più assiste in realtà ama solo se stesso e non vuole liberare la persona amata, lasciandola sopravvivere in un tunnel privo di senso.

Dagli Stati Uniti proprio il giorno di Natale è arrivato quindi un altro passo avanti di quella cultura che fa della morte, solo in apparenza liberamente accettata, la nuova proposta sociale di avanguardia. Quasi uno status symbol di chi è padrone di sé e del suo destino, mentre in realtà è solo vittima dell’indifferenza delle istituzioni e dello spaesamento delle famiglie. Una vittima fortemente condizionata da un circuito mediatico che rifiuta valori come la solidarietà, il sacrificio, la fede.È questo il pericolo che presenta una cultura improntata ad un relativismo etico strisciante, sempre più capace di condizionare le nostre scelte e i nostri comportamenti, chiuso nel culto dell’individualismo autoreferenziale, capace di tollerare tutto e il contrario di tutto, ma non l’amore alla vita, la solidarietà generosa e disinteressata, la capacità di dare senso al dolore e al sacrificio.

Dopo questo ennesimo attacco che dagli USA viene alla vita e alla sua dignità, ci auguriamo però che in Italia l’iter della legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), centrata su valori quali l’alleanza terapeutica e l’attualità del consenso informato riprenda il suo passo rapido verso una compiuta applicazione, che metta al riparo dai rigurgiti eutanasici a cui abbiamo assistito in questi giorni e dal rischio di regolamenti ostili e aggressivi proprio nei confronti delle persone più sole e più fragili. Su questo punto concreto aspettiamo il Governo per passare dalle parole ai fatti, dalle promesse alla loro piena realizzazione.

Questa maggioranza in Senato ha saputo difendere la legge sulle DAT con appassionata determinazione, sfidando una opposizione a volte dialogante, almeno a parole, ma spesso aggressiva e violenta, facendo muro contro una cultura che ha costantemente utilizzato una sola parola chiave per negare diritto di asilo ad una legge sostanzialmente equilibrata: la parola autodeterminazione. Ora si tratta di ripartire proprio da questo concetto, per mostrarne le insidie che contiene, quando all’autodeterminazione si sostituisce una sorta di persuasione occulta che vuole convincere le persone che morire è meglio. Ce lo sentiamo dire attraverso gli articoli di una certa stampa, ma ce lo ha detto e ridetto in modo insinuante proprio lo spot sull’eutanasia mandato in onda dai radicali e l’ultimo regolamento americano.

È come se a un certo punto fosse esploso quanto da tempo molti di noi intuivano: non c’è nulla di autodeterminato in un’operazione di marketing che vende l’idea della morte come liberazione per se e per la propria famiglia; che nega il valore dei legami familiari e che dubita dell’amore che accompagna la cura dei malati. La premessa antropologica di questa cultura è tanto semplice quanto dura ed aspra: si può voler morire, si deve voler morire, perché ne le istituzioni, né la famiglia hanno voglia di prendersi cura di chi sembra non aver più nulla da dare, anche se per tutta la vita ha dato tanto, tantissimo, tutto se stesso, proprio alla famiglia e alla società.

C’è una cultura del sospetto che insinua nella mente dell’anziano: e non te ne vai liberamente, quando e come vuoi tu, ti abbandoneranno, perché è troppo faticoso accudirti, costi troppo, sei un peso. Vattene prima che ti caccino e ti cacceranno in tanti modi se non decidi di togliere da solo l’incomodo che ormai rapprsenti.

La legge che noi vogliamo far arrivare in Aula, alla Camera perché concluda il suo iter al più presto, dice no proprio a questa cultura. Una cultura di morte in cui le categorie economiche dettano legge, suggerendo che una persona che non è più in grado di produrre, ha ormai terminato il suo ciclo vitale. Una cultura in cui la famiglia non sembra più in grado di svolgere il suo compito e rinuncia ad esercitare quell’etica della cura che affonda le sue radici nei vincoli affettivi che legano le persone tra di loro. Una cultura in cui la sanità può permettersi sprechi e cattiva gestione senza suscitare eccessive reazioni nel sistema sociale, ma non può permettersi di accudire a lungo pazienti disabili, che siano o meno in stato vegetativo.

La nuova legge deve tornare a parlare di un modello di sanità in cui medico e paziente sono legati da una profonda alleanza, che conserva da sempre una sua intrinseca valenza terapeutica; un modello di buona sanità in cui la principale forma di umanizzazione passa proprio attraverso il dialogo personale tra medico, paziente e familiari, senza fretta e senza strumentalizzazioni.

Una legge in cui il consenso informato non ha nulla di burocratico, ma è invece il modo naturale con cui ci si scambia informazioni, si condividono speranze e desideri, si affrontano insieme paure e sofferenze, per giungere ad una decisione consensuale. Una legge che restituisca al Paese la speranza in una medicina migliore, la consapevolezza che in Italia i buoni medici sono di gran lunga di più dei medici disposti a convertirsi in certificatori del desiderio di morte, e subito dopo in dispensatori di morte.

Per questo vogliamo presto la legge sulla DAT, perché si sappia che in Italia il malato può fidarsi dei suoi medici, perché si interrompa questa persecuzione virtuale, ma non per questo meno perniciosa, in cui si insinua che i medici staccano al spina ai malati senza neppure consultarli. Non è così. In Italia i pazienti non chiedono l’eutanasia e i medici non la praticano, qualsiasi cosa si dica. I pazienti chiedono terapie contro il dolore, chiedono cure palliative, e i medici desiderano solo poter assistere i propri malati in scienza e coscienza, con umanità e con il retto uso delle moderne tecnologie.

Questo è quanto dice questa legge e questo è quanto vogliamo che il Parlamento approvi e c’è un’ampia maggioranza in Parlamento, una maggioranza trasversale, disposta a votare questa legge e determinata ad ottenerla con la stessa insistenza con cui la Lega vuole il federalismo fiscale. Prima di staccare la spina al governo.  Ma non avrà il federalismo fiscale se prima non avremo ottenuto questa legge, che da sola vale una legislatura, proprio per amore della vita e per rispetto di quanti oggi appaiono come gli ultimi tra gli ultimi.
In questo senso vanno i nostri sforzi, a questo sollecitiamo il Governo, in questo ci impegniamo in Parlamento.

Per approfondimenti sul tema  si veda l’ultimo libro da me pubblicato:
P. Binetti, Il Consenso informato, Tra umanizzazione della medicina e nuove tecnologie
Ed. Magi , Roma, 2010

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