Un giorno ho potuto ascoltare inavvertitamente, stando in prima fila nella sala delle conferenze stampa di Palazzo Chigi, un curioso duetto fra Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso. Era una sabato particolare, il premier era nero e il giorno dopo dalla prima pagina di “Repubblica” avrei capito perché: la moglie aveva deciso praticamente di comunicagli un “avviso” a mezzo stampa di fine matrimonio.



La conferenza stampa convocata a giorno insolito e ora insolita riguardava la ricostruzione dell’Aquila, si era ancora in piena emergenza. Bertolaso si fece un po’ attendere e quando arrivò, Roberto Gasparotto – l’uomo immagine di Silvio Berlusconi ­- gli disse che si era seduto sulla poltrona sbagliata, che doveva invertirsi di posto col premier. «Presidente, non le ruberei mai la poltrona», sussurrò Bertolaso in un orecchio al presidente del Consiglio». «Magari», fu la risposta appena percepibile dal labiale di un Berlusconi che proprio non era in vena.



Stavo da tempo monitorando, per mio interesse, il fenomeno Bertolaso, e quel giorno ebbi come una curiosa e involontaria conferma di una sensazione. Di una percezione di megalomania che aveva preso uno dei più validi servitori dello Stato, certamente il più noto e in voga. Ero stato, come gran parte degli italiani, letteralmente rapito, dalla sua capacità di rappresentare le istituzioni con piglio, autorevolezza e coraggio, ma qualcosa non mi convinceva più. Non di lui, voglio dire, ma del fenomeno che gli stava montando intorno.

No, non mi riferisco all’aspetto morale, ma alla progressiva riduzione delle prerogative degli organi elettivi direttamente proporzionale all’ascesa del fenomeno.
All’epoca del terremoto dell’Aquila nutrivo già qualche perplessità al riguardo. Ne parlai con il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente in una, per me, memorabile intervista, il lunedì di Pasquetta, chiusi nella sua vettura, nel parcheggio di un supermercato in cui era andato a vivere con il suo camper. Gli chiesi, a margine dell’intervista (nel corso della quale, ricordo, mi chiese se ero io che mi ero mosso, invece era solo l’ennesima scossa) se non temeva che questa presa di potere della Protezione civile potesse esautorare, alla lunga e neanche tanto, i poteri urbanistici di gestione del territorio che sono tutti in capo ai Comuni.



Il mio timore, che cercai di trasferire al sindaco, era che tutta la ricostruzione si potesse parametrare sui tempi tecnici dei media (sei mesi-un anno) puntando su una ricostruzione a schiera, in pianura, sì da dare soddisfazione alle telecamere con i tagli del nastro e la consegna delle chiavi per tempo, salvo poi dimenticare il centro storico, i monumenti, la città vera e propria insomma (che richiedevano tempi più lunghi). Cialente in quell’occasione mi disse che no, non aveva al momento ragione di temere, ma purtroppo sono oggi (pari pari) proprio queste le sue ragioni di polemica per una ricostruzione tanto realizzata sul fronte Protezione civile quanto abbandonata a sé stessa sul fronte ordinario inerente i Comuni e la ricostruzione delle Chiese.

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Credo però che il potere massimo di Bertolaso si sia manifestato, sempre all’Aquila, quando è stato in grado di convincere il premier di quella che lui stesso definì una lucida follia, di spostare il G8 dalla Maddalena all’Aquila, senza che nessuno, nemmeno il Viminale, e tantomeno la Farnesina, fosse chiamata a dare un suo parere. Un’idea rivelatasi geniale, ma ancora una volta era stata partorita in splendida solitudine, con lui in veste di suggeritore scavalcando ministeri e anche ambasciate, in quel caso.

 

Quando poi Bertolaso parlando di Haiti è arrivato – forse con qualche ragione, per la verità – a dare lezioni agli Usa su come si fa Protezione civile, un po’ tutti hanno finalmente intuito che l’uomo stava allargando un po’ troppo. Un altro particolare, infine, ancora più recente, dava l’idea dello stato dell’arte. In commissione Ambiente, al Senato, una settimana fa, il progetto di spa della Protezione civile andava “sotto” per le assenze fra i senatori della maggioranza.

 

In serata il più atipico dei comunicati arrivava da Palazzo Chigi. Su carta intestata della Protezione civile il presidente Antonio D’Alì (del Pdl) firmava un comunicato probabilmente redatto da altri in cui assicurava che in commissione all’indomani avrebbe posto rimedio. Ancora una volta la Protezione civile metteva sotto protezione tutti, anche gli organismi parlamentari.

 

Ora, era di tutta evidenza che questo andazzo aveva bisogno di una “ripassata”, e non nel senso adombrato dall’inchiesta che ora tocca da vicino il sottosegretario e direttore della Protezione civile. Si potrebbe addirittura andare a riesumare il caso D’Addario, per chiedersi se per caso anche in quell’occasione il vero obiettivo di “Giampy” Tarantini non fosse quello di entrare nell’ambìto “giro” delle commesse della Protezione civile (in cui sui soldi vige il motto “sporchi, maledetti e subito”), come pure in molti ipotizzano.

 

Di sicuro, però, l’idea di affidare praticamente tutto quel che si vuol realizzare veramente – dagli impianti per i rifiuti alla ricostruzione per il dopo-terremoto, dai mondiali di nuoto (vergogna: a pochi metri da casa mia, a Ostia, con i soldi dei contribuenti sono state realizzate piscine olimpiche mai utilizzate e lo si sapeva già all’inizio dei lavori che non si sarebbe fatto in tempo per i mondiali) alle carceri – non sta in piedi e dà l’idea che tutto il resto, evidentemente, sia destinato a restare nel limbo di progetti di cui se tutto va bene i posteri, se pure, potranno beneficiare.

 

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Dobbiamo metterci d’accordo, allora: se siamo in democrazia, se c’è ancora un’idea condivisa di bene comune, è bene che si possano fare ancora opere con procedura ordinaria, senza esautorare gli organismi elettivi ai vari livelli, comuni, parlamento o governo centrale che siano. Si dirà: ma non funzionano. Allora parliamone, facciamo qualche riforma seria, finalmente, ma non trasformiamo tutto in una protezione civile, magari spa.

Col risultato che, per l’ennesima volta, al posto di parlare di questo, in campagna elettorale, di progetti politici contrapposti, di bene comune insomma, ci troviamo a sguazzare fra intercettazioni piccanti, “ripassate”, beauty center, ragazze più o meno compiacenti, mentre la gran parte del Paese si dà da fare per assicurare, al netto delle bollette da pagare, un piatto di pasta ai propri familiari.